Concorsi

Cieli tascabili a prezzi irrisori

Racconto di Anna Barilli – primo classificato al Concorso Letterario “Blu” 2021.

Dall’archivio comunale della città di A.

Reperto 26.303: Collezione di n. 37 cartoline, di formato variabile compreso tra 14,4 e 18,3 cm in lunghezza, tra 7,6 e 8,8 cm in altezza. Da un lato: campiture sulle tonalità del blu, si presuppone cieli. Accenni di n.27 nuvole tra cirri, altostrati e cumulonembi; n.1 aquilone; n.13 uccelli in volo, n.4 aerei, scie di condensazione in numero imprecisato. Dall’altro lato: lettere, numeri, latitudini. Vedi reperto 23.456.

Reperto 23.456: fotografia in bianco e nero, campo medio, bassa risoluzione, 1950 circa. Raffigurati: incrocio di vicoli nella città vecchia; sul marciapiede: un carretto a tre ruote; sul carretto: un cartello di lamiera “Cieli tascabili a prezzi irrisori”.
Vedi reperto multimediale 834.

Trascrizione del reperto multimediale 834: intervista* alla Signora Livia Radi Militelli di anni 89. Si schiarisce un poco la gola – Chi sputa in cielo in faccia gli torna, mi dicevano quando ero piccola così. Che sono vecchia sì, ma le cose importanti non le dimentico mica. A mio marito non so se glielo dicevano, quand’era piccolo così, però lui non si è permesso mai, e il cielo lo guardava soltanto, ma fino a che gli piangevano gli occhi. Mio marito era un uomo libero, e questo sì che glielo hanno insegnato da piccolo. Libero d’incantarsi in mezzo alla strada con il naso per aria, così dal nulla, come se niente fosse, libero di dire quello che pensava come lo pensava, libero di parlare al sindaco come al panettiere come ai bambini per strada coi loro piedi scalzi. E con tutti parlava, con tutti! Poi sì, aveva questa ossessione per il cielo. Santa pazienza. A saperlo prima, mica lo avrei sposato. O forse lo avrei fatto più in fretta, senza fare tante storie, senza farlo aspettare per ore, la sera, davanti al portone, con il vestito buono della domenica. Lui li collezionava, i cieli, e non è che scattasse fotografie per fare prima, no, a lui le cose facili non gli piacevano. E allora si fermava nel mezzo delle cose, apriva la scatola, prendeva una cartolina bianca e si metteva al lavoro. Le cose erano qualunque attività stesse facendo, qualunque via stesse attraversando, ogni tram dai finestroni sporchi, ogni rettangolo azzurro riuscisse a scorgere allungando il collo fino a farsi male. E poi giù a lagnarsi che c’aveva il torcicollo, ma dico io. La scatola erano quattro pareti alte così di latta ammaccata e un pugno di colori che venivano da chissà dove, fatto sta che si consumavano ma non finivano. Uno si aspettava i biscotti, e invece. Io non lo so come facesse, dio solo lo sa, ma gli bastavano cinque minuti, cinque, per ricreare la stessa tonalità, precisa precisa. S’era inventato questa teoria per cui ad ogni colore corrispondeva uno stato d’animo. Per l’appunto: cobalto, calma malinconica; blu notte, trepidazione; blue oltremare, paura del futuro; blu reale, attesa, e così via, e non credete mica che io li abbia imparati a memoria. Lui farneticava e io lì ad ascoltarlo, finché una volta mi sono guardata attorno e gli ho detto senti, in natura il blu neppure esiste, non lo vedi che altro non è che un gioco di rifrazioni e di riflessi e di luci e di angoli. Un giorno si è guardato attorno e mi ha detto: senti tu, lo siamo anche noi.
Ebbene, quando abbiamo iniziato a venderle io non ci avrei scommesso una mezza lira, e invece. Vuoi vedere che la gente le comprava, quelle benedette cartoline, e non perché fossero belle, e lo erano, non per la miseria che costavano, ma perché erano storie. E la gente ci va matta, per le storie. Io solo ora l’ho capito, che a forza di starsene chiuso in casa davanti alla stessa finestra a uno gli viene il mal di testa, ma mio marito capiva le cose anni prima, e così è stato. Ogni cartolina aveva la sua storia. Non erano favole, a volte facevano ridere ma più spesso facevano piangere, però erano storie vere e a noi andava bene così. Vede? Alcune me le sono tenute io, che sono vecchia sì, ma le cose importanti non le dimentico mica.

-Estrae una manciata di cartoline, le sparge sul tavolo, inforca gli occhiali-Numero 47, eccola qui. Blu ceruleo, avrebbe detto, acceso e immenso, a tratti quasi verde, senza nuvole. Se solo si potesse ascoltare, sicuro sentirebbe il frastuono disordinato delle feste di paese, le risate delle ragazze, i canti, le chitarre, i fruscii delle gonne leggere. Li sente o no? È il cielo sotto cui ci siamo conosciuti. E che cos’è la giovinezza, se non un turbinare di labbra nel vino e di braccia nell’aria? Eravamo giovani eravamo, e la paura del futuro ci faceva volteggiare vorticosamente.

Numero 103, oserei dire blu acciaio, non trova? Questo con i miei occhi non l’ho visto mai. Le ciminiere delle fabbriche che trafiggono la carta e spuntano dal basso, la lamiera dei capannoni che rifulge di rimando. E un freddo tagliente a tutte le ore, mi diceva. È il cielo lontano di un paese estero. Lo abbiamo odiato con tutto quanto il cuore, per ogni chilometro che ci separava e si moltiplicava nella distanza, per ogni giorno che passava senza che potessimo sovrapporre gli occhi alle voci. Diceva proprio così: sovrapporre gli occhi alle voci. E fin queste ci arrivavano da lontano, dilaniate e perse in interminabili matasse di cavi del telefono. Lo facevano lavorare come un pazzo, quel sant’uomo, lui stringeva i denti e levava gli occhi in alto, fin dentro alle fessure fra le travi: finché vedremo il cielo, è questa la misura della nostra libertà? Le cartoline mi arrivavano per posta, il sabato mattina. Io pensavo che c’era sempre troppo poco sole.

Da 216 a 219: cieli blu notte anche di giorno, e una pioggia torrenziale finita solo all’alba del terzo. Sa cos’è questa? È l’acqua sotto cui è nata nostra figlia. Siamo usciti dall’ospedale che il cielo era terso, pulito pulito come non lo avevamo visto mai. Era vita che incominciava da capo. Anche mesi dopo, mentre il prolungamento del nostro amore gattonava sul pavimento con il moccio al naso, pensavo spesso a quella pioggia. A quegli scrosci da paura che hanno spazzato via le angosce sotto ai rimbombi dei tuoni. E sa come è andata a finire? Nostra figlia ha dormito tutte le sue notti di bambina in camerette dai muri ogni anno più azzurri.

Numero 428. Ironia della sorte, il cielo del nostro litigio più grande ha i colori beffardi di una gita della domenica, non trova? Non ci siamo parlati per mesi. Blu leggero solcato da due scie di aerei lontani, cosa c’è nell’intersezione di un attimo? Tutti i passi indietro che abbiamo fatto per ritrovarci, direbbe lui. Da quella volta, diffido dei giorni troppi sereni. E che le devo dire? A volte fa pur bene appigliarsi alle nuvole.

Ora le direi che la storia finisce qua, ma non sarebbe la verità, sa? Da 630 a 646: tutte uguali sembrano, giusto meno calcate verso la fine, le linee appena accennate. Quasi le avessi lasciate fuori all’acqua, e invece. Questi cieli non li abbiamo mica guardati insieme. I suoi hanno i contorni squadrati di una finestra a doppio vetro, i riflessi azzurrini dei macchinari accesi. Ogni tanto lo vedevo da dentro a un telefonino che non sapeva usare, anche ora che dicono tutti che è semplice ma a lui le cose facili non gli piacevano. Sorrideva a stento, ma sorrideva. Vorrei avergli detto una cosa soltanto, in quell’ultimo strascico di primavera, gli avrei detto, urlato persino, Il buio è solo un colore, stupidello!
Invece, l’ho salutato piano con la mano da dietro la finestra. Ho abbassato appena la mascherina perché vedesse che sorridevo. A stento, ma sorridevo. Il cielo era un affaccendarsi di blu distinti che confluivano, si scioglievano, si slegavano. Un fare e disfare impossibile da catalogare, perfino per lui, sa?
Sentivo tutte le emozioni del mondo.

* Il termine intervista potrebbe risultare fuorviante nel presente contesto, in quanto L.Radi Militelli, prima di cominciare, ha più volte affermato Qui le domande le faccio io.

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