Concorsi

L’effettiva esistenza del mare

Racconto di Anna Atzeni – secondo classificato al Concorso Letterario “Blu” 2021.

L’effettiva esistenza del mare, nella Città dei ciottoli, è tema dibattuto dall’intera popolazione. Si dice che, passando sul ponte più alto, si riesca a vedere un riccioletto di mare: oltre le ultime case, oltre il campanile della cattedrale, oltre la fine della valle del Rosello. Del fiume che anticamente scorreva sotto il ponte sono rimasti solo i sassi; ma neanche di questa vena d’acqua è conservata memoria vivente. Gli ingegni più fini e leggeri della città teorizzano senza sosta sul problema ontologico dell’effettiva esistenza del mare, chiusi nei loro studi insieme a carte, compassi, piccoli plastici, vecchie fotografie confuse e ambigue, sbobinature di testimonianze di avvistamenti. Alcune persone coraggiose o sole partono alla ricerca: tornano sempre confuse e senza risposte, oppure convinte di averlo visto, il mare; con nessuna prova. I giornalisti ne scrivono, sempre, sulla terza pagina del quotidiano locale. Ma a Vittoria la questione non interessava, perché il sole invecchia la pelle del viso e la sua doveva rimanere soda e bianca. Per questo indossava sempre grandi occhiali con le lenti nere, anche quando girava a bordo della sua minuscola auto blu. Io credevo che aver paura di invecchiare significasse aver paura di morire. E perciò ero convinta che Vittoria sarebbe vissuta per sempre.

Vittoria si occupava meticolosamente della sua minuscola auto blu: nessuna briciola, nessun granello di polvere nell’abitacolo; nessuna scucitura sui sedili, nessun graffio sulla carrozzeria, nessun segno di usura, perché l’usura in tutte le sue manifestazioni era ciò che Vittoria combatteva. Per questo viveva poco, per non sprecare la vita tutta insieme; e per questo credevo che non sarebbe morta mai. Quando arrivava lo Scirocco e portava la sua polvere rossa, Vittoria inforcava i grandi occhiali scuri e lucidava l’auto a ogni folata di vento. Finita la tempesta, nel gesso rosso che paralizzava l’intera Città dei ciottoli, spiccava un unico punticino blu e i passanti lo guardavano stupiti come se fosse l’ipotetico e vagheggiato ricciolo di mare. Ma a Vittoria l’effettiva esistenza del mare non interessava.
Ogni tanto a Luglio, quando il caldo era tale che, se il mare fosse esistito, certamente sarebbe evaporato, Vittoria mi permetteva di salire sulla sua minuscola auto blu e andavamo a raccogliere i fichi nella valle del Rosello. Erano aperti, e violacei, e talvolta mangiati dalle formiche. Quando li staccavamo dalla pianta stillavano un latte bianchissimo e Vittoria indossava dei guanti e misurava i suoi gesti attentamente, perché quel latte bruciava la pelle stampandoci sopra delle linee rosse e sottili. E io stavo attenta a non toccarmi gli occhi, perché pensavo che se fossi diventata cieca il mare non lo avrei visto mai, qualora un giorno se ne fosse dimostrata l’effettiva esistenza. In uno di quei momenti lo dissi a Vittoria, e Vittoria rispose che il mare non le interessava.

A Vittoria interessava parlare con le piante perché parlare con le piante favorisce la fotosintesi della mente. E per questo motivo credevo che la sua mente fosse un posto ventilato. Nella ferma volontà di diventare una creatura senza tempo come lei, anche io intrattenevo intensi colloqui con il cisto e il mirto e l’edera, leggevo l’Odissea alla mia tartaruga, nominavo il meno possibile il mare e l’interrogativo intorno alla sua effettiva esistenza. Alla fine di settembre Vittoria mi permise di prendere parte a una sua conversazione con Maria, la quercia più alta nel cortile del convento delle Suore Celestine. Maria era diventata da poco vedova: suo marito Francesco, un maestoso pino silvestre, era stato abbattuto perché le sue radici erano troppo forti e grosse, che avevano aperto delle crepe profonde nell’asfalto della via. Un bambino correva sulla strada nera e appiccicosa che pareva sciogliersi nel caldo di Ferragosto e c’era caduto dentro e aveva perso una gamba. Io ascoltavo in silenzio, mangiando mirtilli da una coppetta di vetro. Improvvisamente non mi trattenni più e domandai: «Signora Maria, ma lei, dalla sua cima, riesce per caso a vederlo il mare?».
Vittoria rispose che non aveva senso discutere del mare, perché il mare non le interessava. Le interessava molto di più tirare a sorte sequenze di numeri combinandoli a dei nomi di città che non avevo mai visto; e spesso indovinava e le davano in cambio dei soldi. E siccome nel gioco era fortunata, credevo che fosse così sempre.
Con il denaro vinto comprava il biglietto per ascoltare i concerti blues che si tenevano nel teatro Verdi tutti i mercoledì dell’autunno. Quella musica era un ottimo tonico per la pelle; e Vittoria aveva un’ammirazione segreta per il pianista. Nei giorni più felici mi veniva a prendere con la sua piccola auto blu e andavamo per la città tutto il pomeriggio. Mangiavamo il gelato alla ricotta, giravamo dentro i negozi di cianfrusaglie, andavamo a salutare Rosina che stava per morire da tanto tempo. Compravamo il pane e facevamo delle palline di mollica da offrire ai pavoni del parco, che in cambio ci sventagliavano con la coda per darci sollievo dal caldo che avvolge la Città dei ciottoli nella maggior parte dell’anno. Alla fine della giornata Vittoria entrava in farmacia per comprare delle piccole pastigliette blu, che le permettevano di fare dei sonni tranquilli e di non contrarre troppo i muscoli del viso. Le chiesi se nei sogni pacifici che la visitavano ogni tanto comparisse il mare; Vittoria rispose che del mare non le importava nulla.

Quando Vittoria non poteva guidare la sua piccola auto blu si sedeva sulla poltrona e mi faceva accomodare sulle sue ginocchia; io stringevo un piatto verde e giallo che funzionava da volante, mentre la matita fra il bracciolo e il cuscino era il cambio. La destinazione si decideva a turno. Vittoria voleva sempre andare in una città dove era stata una volta: piena di fiori e con alcuni posti dove giocare d’azzardo e dove ogni anno si teneva una competizione canora molto famosa. Quando le chiesi perché ci volesse andare così spesso mi rispose che era l’unico posto in cui fosse stata felice in un modo che non le importava se sorridendo le si accartocciava la pelle del viso. Una volta, girando con sicurezza il volante giallo e verde per una strada con molte curve, annunciai che stavamo andando al mare. Vittoria allora mi disse che scendeva, perché il mare non le piaceva.
Una sera Vittoria, alla guida della sua auto con gli occhiali scuri indosso, si fermò sopra il ponte più alto, e non cercava il mare. Ma con un gorgoglio il mare arrivò, e riempì la valle del Rosello, e travolse i sassi nel letto del fiume morto e gli occhi di Santa Lucia nascosti fra i sassi e le suole delle scarpe che in quegli anni gli occhi di Santa Lucia avevano visto passare. Vittoria considerò che il sole assente non rischiava di rovinarle la pelle. Allora tolse gli occhiali e li posò sul tettuccio dell’auto e fece il bagno, e io ero stupita, perché non credevo sapesse nuotare; dal momento che, finché l’effettiva esistenza del mare non fosse stata accertata, saper nuotare non era utile a nessuno.

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