Concorsi

Misure

Di Emanuele Alleva – Secondo classificato al concorso letterario Di-Stanze 2020

Tutto sommato io sono d’accordo con chi resta tutta la vita nel suo paesino. Che poi anche cento duecento persone a conoscerle tutte ci vogliono anni e anni, quindi di cose da fare ce l’hai. Andare a piedi dal panettiere, macellaio, ortofrutta, in rosticceria, al mercato, a passeggiare al parco, a prendere un gelato. Il mercato, se ci fosse un mercato nel giro di cinquanta chilometri giuro, giuro ci andrei a piedi.
Ma i Grandi Stati Uniti hanno solo stradone di catrame che d’estate bolle e d’inverno scricchiola di ghiaccio, e anche farsele a piedi sono sterminate, poi marciapiedi manco a pagarli, quindi tanto vale andare in giardino a friggere un po’ sul trampolino, nero nerissimo che hai paura che da un momento all’altro si fonde e ti fa sprofondare nella plastica.
La sera non è tanto meglio. L’umidità è tipo cento percento, sembra di nuotare se esci un attimo dall’aria condizionata. Anche la temperatura dev’essere alta, ma non so di preciso quanto. Quanto sono novantacinque Fahrenheit? Non si capisce mai, alla fine so che fa caldo, la conversione non la voglio nemmeno imparare, c’entra qualcosa con un trentadue da aggiungere o togliere, ma non so bene. Se ci fosse un mercato nel giro di trentadue miglia, ci andrei a piedi, giuro, non importa che c’è il coprifuoco
ventiquattr’ore su ventiquattro. Neanche le miglia so bene bene cosa sono, so che sono mille iarde, mi pare? Tre piedi sono quasi un metro, e questo lo so. Comunque più o meno le distanze si capiscono a occhio, e quelle in miglia non sono tanto importanti , visto che comunque non si può guidare. So che sono novemila chilometri da casa, l’ho visto sullo schermo dell’aereo quando arrivavo. In realtà è New York che sta circa a novemila chilometri da casa, ma sarà lo stesso pure qui, credo. Credo che tutta questa umidità venga dalle liane che ricoprono tutto. Ai lati delle strade le foreste sono impacchettate da queste grosse corde di rampicanti , alcune sembrano le foglie grosse del farfaraccio che quando vai in montagna usi per fare cappelli, altre piccole piccole verdi verdi sono lì più per decorazione che per
fotosintesi. E vanno avanti avanti per chilometri, per miglia. Sembrano un’imitazione vegetale degli involucri di plastica della roba che compri al supermercato. Ai lati delle strade come i pacchetti di patatine e le confezioni della cancelleria. E chissà se cambiano le specie degli alberi, sotto. Non si capisce neanche la forma delle foglie, la compattezza della corteccia, l’intrico di rami di questo o di quello. È una copertura lunghissima, larghissima, che va avanti per decine centinaia di chilometri decine
centinaia di miglia.
Al chiuso perlomeno c’è l’aria condizionata, anche se la tengono sempre a temperatura bassissima, sui sessanta settanta gradi. Quindi ti serve una felpa o un maglione altrimenti ti buschi qualcosa, ancora più idiota visto che fuori fa un caldo da bassa pressione. Almeno le stanze sono belle grandi, tante finestre, camere per tutti e camera per gli ospiti. Non sembra esserci nessuno in casa anche quando ci siamo tutti, gli spazi sono talmente rarefatti. Sembra un supermercato per viverci. Ecco, sembra un supermercato per viverci, stai in una stanza un po’, guardi fuori le vetrine, poi ti rompi e cambi negozio, e così a ciclo, pregando che le ore si misurino uguali , almeno quelle, e che ugualmente scorrano al di qua e al di là dell’oceano. Dietro un paio di vetrine, l’angolo è giusto per vedere il pezzo di una collina franata da poco, che ha l ’erba fino al crinale, e poi va giù a picco per qualche metro, e mostra la terra all’aria, e la terra è rossissima, quel rosso aranciato della ruggine, della polvere marziana. E sembra
proprio un altro pianeta: il cielo blu senza una nuvola da giorni, il caldo, il rosso, il verde, la plastica ai lati delle strade, l’asfalto. Immagino grosse cupole con dentro le serre, e una tuta spaziale che saltella a bassa gravità, e resta impigliata nei rovi fitti del bosco. Una base della NASA non sarebbe fuori posto, se non fosse per i vicini che qualche volta alla settimana escono coi loro macchinoni a fare provviste di cibo e carta igienica e munizioni.
Una volta qualcuno aveva lasciato un fucile da caccia sul bancone della cucina, sembrava più un fucile d’assalto. Haugialaikit? Hevieversinuan? Mi aveva chiesto masticando undici sillabe in otto. Avevo risposto con accento di non averne mai visti. Era andato avanti a parlarmi del fucile per un po’: sparava da molto lontano, e con il mirino era praticamente un fucile da cecchino. Tre miglia intere, niente male. Ma non c’è niente, qui, a un tiro di schioppo, anche se lo schioppo fa cinque chilometri, al limite qualche cervo attraversa la strada, e le altre villette a schiera annaspano tutte insieme nel silenzio molle che c’è. È saltata la luce cinque o sei volte per gli uragani più di una settimana fa, ma già rimpiangiamo la tempesta, dopo appena una settimana di calma. Hanno già portato via i rami e gli alberi caduti, il
paesaggio sembra non essere cambiato. Solo nelle zone che stanno in ombra tutto il giorno è ancora bagnato, anche perché l’aria così umida non fa evaporare granché. Sul portichetto c’è una panca e mi ci siedo sopra quando ho dimenticato le chiavi per entrare in casa. Aspetto guardando il cellulare, di solito, ma sbircio anche la strada del quartiere, che si arriccia a costeggiare tutte le case fatte con lo stampino. Non c’è neanche il suono delle cicale, qui non ci sono, chissà perché, quindi il caldo non è neanche
assordante come da noi, è proprio vuoto. Pure al nord sono arrivate negli ultimi anni, i miei dicono che non è normale, che quando erano giovani loro le cicale si sentivano solo più a sud. È solo un caldo senza qualifiche, che si disperde nella vallata e sulle colline fino agli Appalachi. Attraversa tutta la mappa, ma non arriva sul mare; è bonaccia E davvero non si riesce a spostarsi quando c’è bonaccia, in mare o sulla terraferma. L’asfalto fa un luccichio se lo guardi lontano, e si perde. Queste strade davvero potrebbero andare avanti all’infinito, anche perché non ci posso andare se non per far la spesa. Guardo il prato davanti a casa, tagliato di fresco. Guardo la vernice delle case, riverniciate dopo uno dei tifoni di qualche anno fa e ancora lisce e senza crepe. Non ci sono dettagli su cui fissarsi, e gli occhi vanno fuori
fuoco nel passaggio dal cellulare alla strada, e mi pare di vedere una macchina in fondo alla via, ma è il riflesso del sole sull’asfalto, che tremola e mi fa sbagliare. Con il cellulare vedo foto di casa, di tutti chiusi dentro, sembra la tragedia più lieve del mondo vista da qui. Passo ore a guardare le foto di tutti, vedo le foto vecchie di chi vuole tornare in vacanza, le foto nuove di chi a casa si arrangia. Mi si scalda troppo la batteria del cellulare e si spegne. Ora sento tantissimo i suoni qui fuori e ci sono dei colibrì, credo, che singhiozzano. Ci sarebbe da alzarsi e tornare a casa a piedi, ma è troppo lontano. Però lo si dovrebbe fare. Mi alzo dalla panca spiegando le ginocchia piano, poi torno giù e mi rimetto seduto un po’ scomposto. Le ombre delle case si sono girate dal mio lato, è passato il mezzogiorno, e ora il resto della giornata scivola via raso terra, sporco di ruggine. Spero di sentire le cicale, ma sono troppo lontane. Rientro.

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