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C’è chi resta e c’è chi va. Luci e ombre della goliardia

di Irene Doda e Camilla Rossini

Meno se ne parla più se ne parla. Sono rinomati, prestigiosi, esclusivi e, soprattutto, misteriosi. Di cosa stiamo parlando? Ma dei collegi, chiaramente. Tutti sanno che esistono, come si chiamano e dove sono. Ma l’aura d’elitaria segretezza che li circonda stenta a diradarsi: i nuovi adepti, per timore o per divertita adesione, non rivelano (o, come affermano, non “possono” rivelare) alcun particolari riguardo alla cosiddetta “matricolatio”, una pratica d’iniziazione cui tutti i novizi devono sottoporsi nei primi mesi. S’ingenera, così, nei non-adepti, una curiosità incredula e contagiosa: come spesso accade, l’arcano vola di bocca in bocca ingigantendosi, o perdendo in attendibilità. L’attitudine alla goliardia, le punizioni imposte dai più grandi secondo un rigido ordine gerarchico, le sveglie notturne, il nonnismo da caserma, fino a presunte coliche renali per ingestione di urina, sono racconti che, per una via o per l’altra, giungono alle orecchie di molti. Quanto è vero, quanto è leggenda?

“Cultura fascistoide” la definisce Alessandro. Tuttora studente all’Università di Pavia, è fuggito da un collegio in seguito a pressioni fattesi troppo opprimenti. Dopo i grandi classici della goliardia (dislocatio: abbandonati in aperta campagna, bisogna tornare in città a piedi; lagunatio: allagamento della stanza con acqua e sapone), per lui sono iniziati i veri problemi. “Io di sicuro non sono un tipo remissivo” racconta. “Per cui spesso rispondevo ai più grandi”. Una volta sulla porta della mia stanza ho trovato un avvertimento: ‘Devi imparare a stare zitto’.” La goliardia tende a non perdonare chi non si fa mettere i piedi in testa: se non sai stare nella comunità, presto accontentato, stanne fuori. Non è stato espulso, no: in collegio si entra per vie formali (spesso anzi una borsa di studio è l’unica possibilità per frequentare l’università di pavia). Alessandro non è stato cacciato: ha continuato a poter dormire, mangiare e vivere tra quei corridoi; solo, è divenuto un “fantasma”. Nessuno poteva più salutarlo o parlargli, anche solo per caso, pena il suo stesso ostracismo. Nemmeno i ragazzi con cui aveva iniziato a legare, che gli erano amici, interagivano più con lui. “Il collegio”, afferma, “è un ambiente totalizzante, che ti imprigiona in un mondo isolato e non aiuta ad integrarsi nella realtà di Pavia e a vivere la vita universitaria, costringendoti a mettere in secondo piano le altre opportunità che offrono città e Ateneo rispetto alle attività collegiali” Per questo Alessandro, dopo essere stato privato nella sostanza di un diritto, ha preferito andarsene e cercare casa per conto suo.

Il disgusto di un solo ragazzo non scredita un intero sistema secolare, no. Certamente, però, la sua esperienza non aiuta un occhio esterno ad aprirsi benevolmente alla tradizione goliardica dei collegi. Chi ne sta fuori, e una parte di chi ne è appena entrato, non riesce a conciliare le norme etiche basilari con, ad esempio, il decalogo della matricola (regola uno: la matricola non ha diritti ma solo doveri), che i nuovi di uno dei collegi sono tenuti a imparare e recitare a comando. Eppure, tra i “vecchi”, la percentuale di entusiasti pro-goliardia aumenta esponenzialmente. Che tutti gli scettici fuggano a gambe levate o che si tramandino fini e segrete armi di manipolazione psicologica? È puro spirito di rivalsa o progressiva presa di coscienza del buono che c’è in quest’antica tradizione? Qualunque sia la risposta, resta un fatto: la goliardia esiste, continua ad essere riproposta e sostenuta. E, in tutti questi casi, è buona norma, per chi non sia superficiale, interrogarsi sui motivi del persistere di un comportamento diffuso, prima di esprimere, a buon diritto, un giudizio.

 

Abbiamo parlato di tutto questo anche con Sara, studentessa di Scienze Politiche del secondo anno al Collegio Nuovo, che ha vissuto e vive positivamente questa esperienza. Originaria di Genova, Sara afferma che la vita da collegiale a Pavia l’ha cambiata profondamente. “E’ cambiato perfino il mio modo di sorridere”. Per lei il collegio è una punto di riferimento, “quasi una seconda famiglia”.

Lasciando per un momento da parte la tua visione ottimista, cosa pensi di chi è addirittura dovuto andarsene da un collegio, perché la goliardia rendeva la sua vita impossibile?

Innanzitutto bisogna dire che c’è una bella differenza tra collegi maschili e femminili. Tra i ragazzi gli scherzi sono molto più pesanti. Ovviamente c’è chi esagera, dipende molto dalle persone con cui ti trovi ad avere a che fare. Di solito però l’atteggiamento iniziale verso le matricole non pregiudica una successiva amicizia che può nascere con i più anziani.

Quindi la goliardia degli aspetti positivi li ha. Quali sono?

Si crea moltissimo spirito di gruppo tra persone dello stesso anno. Parlando della mia esperienza, per noi “grandi” è anche un’occasione di conoscere meglio le nuove ragazze che arrivano, si possono gettare le basi per un’amicizia. Chi non vuole partecipare alla goliardia è libero di farlo, ma significa rimanere ai margini della comunità collegiale. Se poi c’è qualcuno che ha qualche problema, noi siamo sempre disponibili a parlare e a prendere in considerazione la sensibilità di ciascuno. Generalmente verso i nuovi arrivati c’è un sentimento di benevolenza.

Molte persone però non si aspettano le “matricolate” quando arrivano in collegio. Insomma, uno crede di arrivare, di poter studiare tranquillamente e invece…

E’ vero che se ne parla poco, ma se tutti se lo aspettassero sparirebbe il bello della cosa, l’effetto sorpresa e anche la sua spontaneità. Rimane tutto un gioco, ma se un gioco non viene preso seriamente… ha poco senso.

Goliardia uguale gruppo, comunità. Ma è l’unico modo? I più grandi non potrebbero accogliere i nuovi venuti con un po’ più, diciamo, di gentilezza?

Se non ci fosse una sorta di gerarchia all’interno del collegio, e ci si rapportasse alle matricole come a dei “fratelli minori” si perderebbero tradizioni e senso di appartenenza. Pensa se uno, di due anni in più di te, che consideri un tuo amico ti chiedesse, non so, di fare un disegno da appendere alla porta della sua stanza, oppure di preparare una scenetta. Tu cosa gli risponderesti? Ovviamente pensi che sia uscito di testa. Se invece nutri un po’ di timore, e di reverenza, verso i “vecchi” del collegio, beh, in quel caso fai anche cose che altrimenti considereresti ridicole.

Dall’esterno si ha molto l’impressione che voi collegiali siate un mondo a parte, che vi conosciate tra di voi e che usiate codici comunicativi (soprannomi, cori, modi di dire) che noi comuni mortali non condividiamo. E’ così che vi percepite?

Questa tutto sommato è un’impressione giusta. Tra i collegi, sia di merito che non si crea una sorta di nocciolo duro: ci si conosce molto, per feste ed eventi organizzati, e si condivide lo stile di vita, e tutto ciò che lo concerne. Si ha un certo approccio alle cose, che gli esterni non capiscono, soprattutto per quanto riguarda la goliardia e la vita collegiale. I collegi non sono un mondo chiuso, ma di sicuro sono un mondo a parte nella realtà pavese. Questo di certo non lo si può negare.

6 pensieri riguardo “C’è chi resta e c’è chi va. Luci e ombre della goliardia

  • Fulvio Schiano

    A Irene Doda e Camilla Rossini va riconosciuto il merito di aver affrontato l’argomento goliardia introducendo elementi nuovi rispetto a quanto fatto in precedenza da altri loro colleghi e cioè non più la solita difesa d’ufficio che presenta l’attuale goliardia come una tradizione sostanzialmente “buona” e mal sopportata solo da pochi disadattati. Non deve essere stato facile, visto il contesto nel quale ci muoviamo, iniziare ad introdurre nelle argomentazioni anche elementi di richiamo a presunte azioni non propriamente ispirate ai principi stessi della goliardia e al carattere formativo e di rispetto della persona ai quali si ispirano i collegi. E qui il problema si fa più complesso. Si perché se la goliardia (quella ispirata a Pietro Abelardo/Golia per intenderci) è cultura, è libertà di critica, è ironia, è satira, è burla, ciarlataneria, è dialettica dell’assurdo, è confronto (irridente di ogni limite gerarchico), è lecito porsi la domanda su come possano stare allo stesso tavolo dei goliardi, coloro che praticano veri e propri atti di nonnismo. Io ho un mio punto di vista che credo riesca a chiarire, almeno in parte, anche alcuni interrogativi che l’articolo si pone. Atti di nonnismo, quanto è vero e quanto è leggenda? Pur essendo consapevole di quanto sia scivoloso il terreno, l’unico modo per appurarlo è fare un piccolo sforzo in più: garantendo l’anonimato e depurando la notizia da elementi circostanzianti, il giornalista potrà verificare facilmente se è vero che nell’ultima “guerra” fra collegi qualcuno è finito al pronto soccorso, oppure quanti hanno dovuto assentarsi per cure mediche dopo estenuanti esercizi fisici, oppure se gli anziani si rivolgono normalmente alle matricole con ingiurie e offese, (per intenderci tipo: stai zitto stronzo, sei solo un coglione…)se l’assenteismo in facoltà delle matricole è elevato in quanto spesso, al mattino, non sono in grado neppure di presentarsi. E quanti sono realmente coloro che lasciano il collegio perché non lo ritengono un luogo solidale, cameratesco, che favorisce la crescita personale. La seconda domanda che si pone l’articolo riguarda il persistere di questa tradizione. Anche qui occorre fare un distinguo: se non si riesce a descrivere cosa accade veramente nei collegi e se si sostiene che “il disgusto di un solo ragazzo non scredita un intero sistema secolare” sarà difficile capire perché il sistema tiene (attenzione non mi riferisco alla goliardia, mi riferisco al nonnismo). Il sistema tiene perché nessuno denuncia tutti gli atti di nonnismo che in realtà hanno rilevanza penale, il sistema tiene perché viene fatto credere che il nonnismo SIA la tradizione goliardica, mentre in realtà con questa non ha nulla a che vedere. Il sistema tiene perché nessuno riesce a far prendere coscienza alle matricole dei loro elementari diritti di libertà, di dignità e di rispetto. L’intervista a Sara è emblematica: non ti dico che cosa ti accadrà se no sparirebbe il bello della cosa: ma chi dà il diritto di decidere per qualcun altro che mettere la faccia nella tazza del cesso è una cosa bella? Purtroppo dare la possibilità a chi non la pensa così di poter fare delle scelte consapevoli, PRIMA di entrare in collegio, non esiste, perché gli atti di nonnismo, per loro definizione e in quanto illegittimi, non si possono dichiarare. Non vi sono segrete armi di manipolazione psicologica?: il bullo sa, per esperienza tramandata e vissuta, come soggiogare psicologicamente chi si trova in una posizione di inferiorità. E’ la tecnica del branco, ben nota a chi studia questo tipo di fenomeni, che si perpetua ogni anno grazie ai soggetti psicologicamente più deboli. Non dimentichiamo che le matricole sono al di fuori del loro ambiente, della loro città, della loro famiglia. Sono soli. E sostenere che non parlano perché sono consenzienti equivale a dire che sono consenzienti anche quel 95% di donne che ogni anno non denunciano i loro stupratori.
    Le cose possono cambiare, tanti muri sono crollati e anche il nonnismo, ormai scomparso dalle caserme, può essere rottamato dalla goliardia ma occorre uno sforzo congiunto di tutti, dalle matricole agli anziani, dalla stampa agli osservatori. I collegi possono tornare ad essere quel luogo privilegiato di accoglienza dove la solidarietà, lo studio e la spensieratezza possono coniugarsi naturalmente con la goliardia. La violenza può e deve essere espulsa dalla parte sana della società studentesca. Sarà dura ma… “si può fare”.

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  • Caro Fulvio, hai fatto benissimo a impostare questo lungo discorso, sollevando il doloroso problema di discernere cosa sia goliardia e cosa sia bestialità (fra i primi a non distinguerle, ci sono alcuni che dicono di praticare la prima: come hai detto tu, insomma). Non capisco, però, cosa tu intenda per “difesa d’ufficio”. Qui nessuno è costretto a parlare di un certo argomento, né gli si dettano i pezzi, men che meno si viene pagati per dire una cosa al posto d’un’altra. Il punto è quello che hai detto tu: la goliardia è goliardia, il nonnismo è nonnismo e un conto è parlare di uno, un conto parlare dell’altro. Quanto ai “pochi disadattati”, di “disadattati” non s’è mai parlato. Aggiungi anche che c’è davvero chi lancia le accuse più stratosferiche solo perché gli si è domandato di preparare una canzone o perché è stato condotto a sfilare truccato per le vie della città… Uno sarà anche padrone d’avere il carattere che ha, ma mi dirai che queste sono “violenze”? Sarà perché ho vissuto esperienze praticamente contrarie a quelle di cui parli, ovvero mi sono capitate matricole che sfottevano noi “anziane” in modo più o meno velato… E noi a mandar giù il rospo, perché “sono giovani, bisogna capirle…”! Va da sé che non abbiamo mai messo la loro faccia nella tazza del WC o qualcosa del genere. Tutto questo per dire che ho molto apprezzato il tuo intervento, ma che ribadisco anche che non puoi prendertela coi redattori di “Inchiostro” se fanno fatica a trattare con completezza un argomento così sfaccettato e inesauribile. Fanno fatica anche le testate nazionali, lasciamo perdere a cosa mi riferisco!
    Molte grazie per aver scritto, comunque. Buona giornata!

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    • Fulvio Schiano

      Cara Erica, la sensazione che ho avuto leggendo i pezzi che trattano di goliardia è stata quella di essere davanti ad una posizione aprioristica che ha di fatto ingabbiato la possibilità di una analisi più approfondita e imparziale. E la sensazione si è rafforzata quando ho letto le risposte tue e di Giovanni ai commenti dei lettori in merito al pezzo sul caso di omofobia (al quale entrambi penso ci riferiamo). E’ possibile che non ci sia stata la volontà di sostenere a priori la tesi di una goliardia che -nonostante gli atti di nonnismo- sia sostanzialmente buona, ma vedi, è il modo di presentare l’una e l’altra posizione che mi ha fatto percepire una determinata intenzione. E cioè che si tendesse ad indurre il lettore a pensare che se qualcuno non fosse stato capace di sopportare qualche scherzo, magari un po’ pesantino, forse il motivo fosse in fondo da attribuirsi ad una scarsa capacità di adattamento alla vita sociale e quindi a quella del collegio. Da qui il termine disadattato (che non è stato usato da voi ma da me) e la mia sensazione di difesa d’ufficio (che prescinde dal fatto che qualcuno vi paghi o vi imponga o meno una linea editoriale).Forse mi è arrivato qualche cosa di diverso da quello che volevate trasmettere, ma dato che non sono stato l’unico e che le buone intenzioni nel giornalismo non bastano, le risposte vanno cercate fra le righe dell’articolo che avete scritto e non fra chi vi ha mosso le critiche. Erica credimi, non me la prendo certo con i redattori di Inchiostro anzi, apprezzo molto il lavoro di chiunque metta la faccia e una firma alle proprie idee, e quindi apprezzo anche il vostro; per esperienza diretta so quanto sia difficile trattare argomenti così delicati, so anche che qualsiasi cosa si scriva, ci sarà sempre qualcuno che non è d’accordo, ma so anche che se si impara a non reagire alle critiche come se fossero un attacco personale e a leggerle con un certo distacco, qualche volta si riesce a trarre da queste anche qualche indicazione per fare meglio. Non siamo nella Sicilia descritta da Levi, ma come le sue “parole sono pietre” dovete rendervi conto che anche le vostre possono esserlo. Si tratta solo di scegliere il calibro e la direzione verso la quale scagliarle.
      Un esempio?: leggo il lancio della risposta all’articolo “C’è chi resta e c’è chi va”, risposta che circostanzia fatti la cui gravità, giornalisticamente parlando darebbe luogo a una vera e propria bomba, un caso perfetto, con l’aggravante che si tratta di un collegio di merito, gestito da un prelato e patrocinato nientemeno che da un principe. Nelle mani di qualsiasi giornalista professionista, probabilmente la notizia si aggiudicherebbe le otto colonne o i titoli di apertura del TG; i responsabili finirebbero ai domiciliari e la vittima, con il risarcimento danni, si pagherebbe l’intero corso di studi. Si parla di essere costretti a mangiare pasta condita con scarafaggi, sperma nei bigné, obbligo di mangiare la terra raccolta per strada, privazione della libertà e del sonno, fratture, sangue nelle urine e denti rotti. Grazie a questa testimonianza, si è rotto quel velo di omertà che per anni ha consentito l’esercizio indisturbato di queste pratiche, ogni tentativo di giustificazione è impraticabile e chi racconta lo fa esponendosi con nome e cognome: fonte diretta. Ed ecco il lancio: UN PIZZICO DI VERITA’.(?!) e nell’introduzione: “Noi di Inchiostro pensiamo che sia molto importante affrontare accuratamente l’argomento, tenendo conto di ogni testimonianza diretta pervenuta, consci che ogni studente può vivere la realtà collegiale in modo soggettivo e che le situazioni variano di caso in caso (cioè da collegio a collegio o da persona a persona)”. Allora rifletto e penso: ma di che cosa stiamo parlando? In modo soggettivo si può vivere uno scherzo goliardico, ma la soggettività si ferma laddove inizia la legalità, quella legalità che dispone come la violenza privata, le lesioni personali, le ingiurie e il sequestro di persona siano oggettivamente reati oltre che oggettivamente deplorevoli. Per concludere, io credo che le cose stiano cambiando, la svolta c’è stata, siamo agli inizi ma c’è stata e occorre prendere atto del vostro contributo. Ma se anche io(come Tommaso e probabilmente tanti Culi Dipinti e Riccioli di Fogna) sono addolorato perché credo che si sia persa un’occasione per rendere un servizio ancora piu’ utile alla sopravvivenza della goliardia, può darsi che qualcuno della redazione possa risentirsene. In cuor mio spero che ci sia anche qualcuno che raccolga le ragioni di questo mio stato d’animo e le faccia sue.
      Grazie e buon lavoro.

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