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“Anche la Monna Lisa cade a pezzi” – Fight Club Proposta di riflessione. Attenzione: contiene spoiler!

“La gente mi chiede sempre se conosco Tyler Durden.”; sono poche le parole che ci proiettano nel racconto, le stesse che chiudono il sipario della narrazione, seguite da un sussurro: “Distruggeremo la civiltà per poter cavare qualcosa di meglio dal mondo. Non vediamo l’ora di riaverla con noi, signor Durden.”. Questi sono gli antipodi di Fight Club, film del 1999 diretto da David Fincher e basato sull’omonimo romanzo statunitense di Chuck Palahniuk, scritto nel 1996.

Il protagonista del racconto è un anonimo e mediocre agente assicurativo. I suoi tratti distintivi sembrano corrispondere all’inetto del Decadentismo, difficile sarebbe notare la differenza fra lui e uno dei personaggi nati dalla penna di Italo Svevo.

Il nostro inetto vive nel grigiore e nella degradazione della vita lavorativa dell’uomo moderno, immerso in una realtà cinica ed ipocrita, impegnata nella frenetica ricerca del guadagno. Il protagonista, pirandellianamente, è uno dei tanti volti vuoti che popolano in giacca e cravatta gli uffici e i grattacieli. Un alienato alla Karl Marx, diciamo. L’unica consolazione per la sua solitudine è frequentare il programma di sostegno per il cancro alla pelle, la serata tubercolosi del venerdì, il circolo bimestrale di anemia falciforme o gli alcolisti anonimi. Insomma, la sofferenza degli altri diventa una fondamentale valvola di sfogo, una droga: “Quando la gente pensa che stai morendo allora ti ascolta veramente, invece di aspettare il proprio turno per parlare.”. Circondandosi di sofferenza altrui, il nostro protagonista apatico cerca di ritrovare la propria pace interiore e la sua emotività.

E poi c’è Tyler Durden. Tyler è l’alter ego del protagonista, l’espressione più recondita della sua volontà di evasione dalla società e di auto-affermazione. “Siamo la stessa persona. Cercavi un modo per cambiare la tua vita, non potevi farlo da solo. Tutti i modi in cui desideravi essere: quelli sono io. Ho l’aspetto che vorresti avere tu, sono intelligente, capace e soprattutto sono libero in tutti i modi in cui non lo sei tu. Le persone parlano con se stesse e vedono se stesse come vorrebbero essere, non hanno il coraggio che hai tu di lasciarsi trasportare. Ovviamente combatti ancora per questa cosa, ma poco a poco ti stai lasciando diventare Tyrler Durden.”. La maschera sociale indossata dal protagonista di Fight Club si scontra con le pulsioni represse del suo animo, determinando il suo malessere psicologico, l’insorgere di nevrosi, insonnia e sonnambulismo, ma soprattutto la costante fuoriuscita violenta di quella parte più recondita e censurata di sé: Tyler, che pian piano sgretola le certezze e la monotonia della vita del protagonista.

Nel film vi sono continui accenni di Tyler ad una rinascita, un’illuminazione. Ma che rinascita? Tyler progetta di abbattere le sedi degli istituti di credito, azzerando così i debiti, e, una volta crollata la finanza, solo il caos potrà riportare equilibrio. Tyler aspira alla distruzione della società e all’avvento di un nuovo mondo, ma un mondo non potrebbe essere definito nuovo se continuasse ad essere abitato dal vecchio uomo; al nuovo mondo deve quindi precedere un nuovo uomo, un oltre-uomo nietzschiano, in un certo senso. E per farlo bisogna abbattere la morale, la fede e il culto del consumo. Dopo che il suo appartamento va in fiamme, il protagonista, alla ricerca della perfezione dell’apparenza e schiavo dell’IKEA, si ritrova a raccontare a Tyler dell’accaduto: “Quando compri dei mobili tu dici a te stesso che non avrai mai più bisogno di comprare un divano. Qualunque cosa capiti il problema del divano è risolto. Avevo tutto, avevo uno stereo piuttosto decente, un guardaroba che stava cominciando a diventare rispettabilissimo. Mi mancava poco per essere completo. E ora è tutto sparito.”. Tyler, in risposta, denuncia la ricerca della perfezione attraverso il conformismo, aggredisce l’abitudine di assemblare la propria vita come fosse un appartamento da arredare, pezzo dopo pezzo, spesa dopo spesa; una vita in cui c’illudiamo di avere la libertà, quando l’unica libertà che abbiamo è in realtà quella di spendere i nostri soldi. “Siamo consumatori. Siamo i sottoprodotti di uno stile di vita che ci ossessiona. Omicidi, crimini, povertà, queste cose non mi spaventano. Quello che mi spaventa sono le celebrità sulle riviste, la televisione con cinquecento canali, il nome di un tizio sulle mie mutande, i farmaci per capelli, il Viagra, poche calorie. Io dico ‘non essere mai completo’, io dico ‘smettila di essere perfetto’, evolviamoci: le cose vadano come devono andare.”. L’unica conseguenza del possedere è l’essere posseduto dalle cose che credi t’appartengano. È la vincolata libertà dell’homo sapiens sapiens del consumo: la libertà di acquistare, mentre svanisce la libertà dall’acquistare.

Per riappropriarsi della vita, Tyler propone una ricetta tutta sua: la riscoperta del dolore corporeo dell’auto-distruzione, e per questo fonda il Fight Club. “Dopo la lotta ogni altra cosa nella tua vita si abbassa di volume, potevi affrontare tutto. Da nessun’altra parte ti sentivi vivo come lì. Nel Fight Club non era questione di vincere o perdere, non era questione di parole, quelle grida isteriche erano raptus estatici. Quando il combattimento era finito niente era risolto, ma niente importava. Alla fine tutti ci sentivamo salvi.”. Il nichilismo violento di Tyler libera l’individuo dal vivere moderno e dai principi base della civiltà, portandolo alla consapevolezza di sé. La riappropriazione della vita attraverso il dolore rende visibile l’irrilevanza di un mondo preconfezionato. La cura di Tyler al vivere moderno è perdere ogni certezza, per poter trovare la libertà. “Tu non sei il tuo lavoro, non sei la quantità di soldi che hai in banca, non sei la macchina che guidi, né il contenuto del tuo portafogli, non sei i tuoi vestiti di marca, sei la canticchiante e danzante merda del mondo!”.

Un continuum di incognite e eventi dal ritmo incalzante accompagna lo spettatore, che scopre solo nel finale chi, o cosa, Tyler è realmente. Durden lascia il sipario sussurrando la sua profezia di un mondo rinato dalle ceneri della società data alle fiamme. Questo è forse il frammento nevralgico della pellicola: tante interpretazioni possibili e nessuna certezza. Quale dei due “Tyler” sopravvive negli ultimi concitati minuti del film? Forse tutti e due, in qualche modo. Difficile dirlo, ma lascio a voi la responsabilità di dare una conclusione a ciò che la penna di Palahniuk e la regia di Fincher hanno creato.

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