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La lingua del dolore: Babel

Si è conclusa giovedì la rassegna di Radio Aut relativa alla cosiddetta “Trilogia sulla morte” di Alejandro González Iñárritu [1], consegnando ai nostri palati quel senso di sazietà ancora latente che tende a caratterizzare il finale di molte esperienze. Un titolo conclusivo come Babel (2006), poi, non poteva che enfatizzare un simile effetto, rilasciandoci nella nebbia e nell’umidità pavese carichi di un misto di malinconia, stordimento e contemplazione; nonché, nel mio personale e opinionatissimo caso, di una certa dose di sonno arretrato da recuperare.

Possibile si possa parlare di moderna catarsi?

Senza la parte sul sonno, va da sé.

Limitato l’obiettivo della sua cinepresa alla sola Città del Messico in Amores perros (2000) e allargato il focus con un’America dalle parvenze volutamente sfocate in 21 grammi (2003), Iñárritu compie un passo più lungo nel concludere la trilogia: la Babel del titolo è prima di tutto un crocevia di lingue, di costumi e di valori, attirati da un inusuale centro di gravità o invero dalla proverbiale torre (un semplice fucile a otturatore, emblema di morte umile ma infallibilmente preciso) a prescindere dalla loro distanza fisica. America, Messico, Marocco e Giappone convergono gli uni sugli altri nel delineare una storia in cui le etnie sono diverse, ma la sofferenza umana è sempre la stessa.

La lista dei protagonisti è variegata: i problematici coniugi americani Richard (Brad Pitt) e Susan (Cate Blanchett) [2] che cercano rifugio nell’esotismo da un fantasma mai dimenticato; i pastorelli marocchini Yussef (Boubker Ait El Caid) e Ahmed (Said Tarchani) che tentano di svincolarsi dalla pubertà tra attrazione sessuale e virilità ricercata nello sparo; la studentessa giapponese Chieko (Rinko Kikuchi), attraente ma esclusa dall’ambita attenzione maschile dalla sua afasia di sordomuta, afflitta dal peso di una società scissa tra ribellione e tradizione. In coda, umile e perseverante come può esserlo solo una babysitter, Amelia (Adriana Barraza), lavoratrice messicana il cui solo desiderio è partecipare al matrimonio del figlio. Pretesti dolenti per quattro vicende, interconnesse per quanto distanti, che spingono nuovamente i protagonisti a contatto con la morte; reale o ideale che sia.

La pluralità di ambientazioni non può che favorire il colore della pellicola, regalandoci tre principali sistemi di sfumature: una serie di palette distinte, visive e anche mentali, che mancava a 21 grammi. Rispetto al precedente capitolo della trilogia, e in ricercata consonanza con il titolo, il dialogo stesso si fa più minimalista, lasciando ampio spazio alle azioni, ai gesti e a tutte quelle espressioni  della sofferenza e dell’incomprensione che esulano dalla produzione orale. Interessante, poi, la ricostituzione di una temporalità quasi del tutto trasparente, rispetto alla babelica  successione degli eventi che caratterizza 21 grammi.

Le lingue saranno molte, ma il dolore è uno solo. E, nel concludere il suo trittico, Iñárritu ce ne dà una rappresentazione magistrale.

Una nota di merito ai nostri ospiti: discreta, posta in conclusione, in segno di rispetto per coloro che, discreti, ci hanno proposto la visione delle varie pellicole per poi offrire constatazioni, spunti, pareri individuali. Si aggiunga, non so se per semplice tolleranza degli astanti o per concusso privilegio della redazione, la possibilità offertami (o meglio, impunemente arrogatami) di adibire un pouf inutilizzato a poggiapiedi.

Grazie di tutto, Radio Aut. Ci vediamo per David Lynch.

 

[1] Le cui precedenti istanze sono state analizzate in apposite uscite. Da Chiara, che non sono io. Credo in questo specifico caso possiate pensare a me come a un vice-Chiara.
[2] Lui ingrigito prematuramente, lei ipocondriaca inseparabile dall’Amuchina.

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