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A confronto |Alì, la soglia fra uomo e leggenda

Il 17 gennaio del 1942 nasceva a Louisville Cassius Marcellus Clay Jr. proveniva da una famiglia normale, umile, il padre dipingeva vetrate, e la madre era casalinga. Nulla a che vedere con le solite tristi storie di molti altri campioni del mondo della nobile arte.

Cassius aveva ovviamente sangue afroamericano, ma non solo, vantava una discendenza tanto diversa quanto fu la sua attitudine (quasi inverosimile) a boxare in modo esplosivo, tipico dei pugili afroamericani, e all’occorrenza in maniera conservatrice, da vero incassatore irlandese. Non per altro, le sue origini da parte di madre erano irlandesi. Era un ragazzo parecchio intelligente, e non incline alla violenza, fino a che, un giorno, all’età di 12 anni, gli venne rubata la sua bicicletta, comprata dal padre qualche giorno prima per il suo compleanno, per un costo che, parlando degli anni ’50, non era certo irrisorio: 60 dollari. Il giovane Cassius, indispettito, iniziò a girare per tutto il quartiere, porta a porta, chiedendo a tutti chi avesse rubato la sua bicicletta. Gli dissero di andare nella palestra di pugilato e di chiedere a Joe Martin (un poliziotto che nel tempo libero faceva l’allenatore), che sicuramente sarebbe riuscito ad aiutarlo.

Come lo stesso Joe Martin dichiarò in futuro, quando vide il ragazzino piangente e fradicio di pioggia che urlava minacciando di picchiare chiunque gli avesse rubato la bicicletta, pensò che poco avrebbe potuto fare, gracile com’era, in un quartiere come Louisville per riprendersi la sua bicicletta, e lo esortò ad entrare in quella palestra e ad allenarsi con lui, così che, se avesse trovato i ladri, sarebbe riuscito a sfangarla, e a riprendersi la sua amata bicicletta.

La bicicletta non fu mai ritrovata, ma ironia della sorte, poiché così spesso è la vita, da un fatto tragico (come può essere tragico per qualunque ragazzino la perdita di un oggetto, l’unico per lui, così importante), nacque la leggenda, il mito, quasi a dover ringraziare per il “regalo” quegli sciagurati “eroi” che ci hanno permesso di assistere a battaglie che di violento avevano bellezza e poesia.

Nel giro di 3 anni, Alì vinse tutto quello che poteva vincere a livello dilettantistico, statale e poi nazionale. Nel 1960 approdò, ad appena 18 anni, alle Olimpiadi di Roma, dove distrusse ogni avversario gli si parò innanzi. Cassius era ancora nel pieno della crescita fisica, la medaglia d’oro, difatti, la vinse nei mediomassimi e non nei massimi, peso che poi fece nel professionismo. Già da lì, comunque, chi c’era, chi ha avuto l’onore di seguirlo, capiva il potenziale, era certamente un predestinato.

Passò presto al professionismo, erano anni dove ancora non esistevano quei pugili che fanno del dilettantismo la loro carriera, erano anni dove un ragazzo di Louisville, come centinaia di migliaia provenienti da quartieri disagiati di tutta America, non avevano spesso molta scelta, e le palestre erano piene di giovani afroamericani bastonati dalla vita, dalla povertà (dalla polizia, spesso). Sta di fatto che Cassius era un predestinato, ma non per questo fu semplice la sua scalata ai massimi livelli. Fin da subito, affrontò nei primi 3 anni pugili di spessore, subendo anche un paio di atterramenti, ma mantenendo comunque il suo palmarès iridato, rialzandosi e distruggendo chiunque (come suo solito fare, più facile a dirsi che a farsi), fino all’incontro per il titolo, concessogli nel febbraio del 1964.

L’allora campione del mondo dei pesi massimi era un soggetto decisamente “tenebroso”. Si chiama Sonny Liston, era un pluripregiudicato con alle spalle 10 anni tra riformatorio e galera, un uomo che aveva frequentazioni pericolose, mafiose, che non sapeva ne leggere ne scrivere (firmava i contratti per i match con una ‘X’). Liston, allora, aveva 32 anni ed era nel pieno della sua carriera, pugile terribile per chiunque avesse avuto la sfortuna di incrociare i guanti. Sempre per quella fantomatica ironia della sorte, il match fu preparato da Sonny Liston con un ragazzotto di 17 anni, gli faceva da sparring partner, di nome George Foreman, e Big George dichiarò in futuro che l’unico pugile che nella sua carriera lo obbligò ad indietreggiare (in riferimento anche ai suoi 81 match) fu Sonny Liston, che i bookmakers davano vincente 7 a 1 contro quel ragazzino di 22 anni troppo magrino e inesperto per reggere le bordate del campione Liston.

Già da subito, si intravide la genialità del giovane Clay. Spesso i pugili utilizzano una tecnica intimidatoria, il trash-talking, atta a spaventare l’uomo prima che l’atleta, così da indebolirlo psicologicamente per poi vincere più facilmente la contesa. Clay, per questo, tra gli altri insulti al campione, dichiarò più volte che il match sarebbe finito con un KO alla sesta ripresa. Questa tecnica però non sempre funziona, esistono uomini, esistono pugili che non la subiscono minimamente, poiché coloro fra essere uomo ed essere pugile non percepiscono differenza.

Liston era uno di quegli uomini, un soggetto nato per combattere, pronto a morire, felice di poter salire su quel quadrato, unico luogo adatto alla sua natura. La genialità non stette nella capacità di intimorire il campione, ma nella spregiudicatezza di sfidarlo, di far arrabbiare quel pugile dalle braccia enormi, terrore di ogni sparring partner e di ogni avversario. Clay obbligò in sole 6 riprese al ritiro del campione, vinse il titolo, alla faccia di tutti coloro che in lui non credevano (probabilmente anche oggi, se non conoscessimo il risultato, molti di noi ne dubiterebbero), e giunse sul gradino più alto del mondo, per chi del pugilato ne fa una scelta di vita. A soli 22 anni batté quello che poi fu considerato uno dei più grandi massimi di ogni tempo.

Successivamente giunse il tempo della sua conversione, la questione del ritiro della licenza per 4 anni, e il seguente ritiro della cintura. Su questo però non mi soffermerò, non mi permetterò di raccontare né giudicare quello che Mohamed Alì fu come uomo, poiché, a mio parere, lui fa parte di quella schiera di pochi eletti che sono nati pugili, guerrieri, e che la natura stessa del loro essere uomo è inscindibile dalla storia delle loro battaglie.

Da appassionato di pugilato, ciò che mi ha sempre fatto ammirare Alì era la sua innata voglia di essere il migliore, la sua ferrea volontà di vincere, sempre, pronto a pagare il prezzo più alto di tutti. Gli USA provarono, e forse in parte riuscirono, a privarci del più grande pugile di tutti i tempi: i 4 anni di squalifica giungevano in quella che per un pugile così giovane è considerata “l’apice” della carriera. Dell’Alì ballerino che “vola come una farfalla e punge come un ape” sappiamo tutti, ogni uomo o donna lo ricorda così. L’Alì che ricordo io invece è un altro, è un uomo che non riesce più a ballare e a pungere come fece con Liston, con Patterson, con Moore, è un uomo che dopo tanta inattività non ha nulla di tanto più grande degli altri campioni della sua era e della sua categoria; l’Alì che ricordo io è un uomo normale, con un anima grande, troppo grande, più grande di lui, che rivoleva quella bicicletta, per la quale sarebbe morto e resuscitato. Mohamed Alì fu colui che perse, al sui ritorno alla contesa per il titolo, contro Joe Frezier, rompendosi la mascella ma finendo l’incontro in piedi. Mohamed Alì è quello di Kinshasa che correva in mezzo alla gente, cantando e urlando al mondo il suo ritorno.

Quello fu l’incontro per eccellenza, una battaglia tra titani, lo scontro tra il bene e il male (l’abilità di persuadere che possedeva Don King era proverbiale e conosciuta da tutti). Il 30 ottobre del 1974, nell’allora Zaire, andava in scena quello che dagli storici del pugilato viene definito l’incontro del secolo, dal titolo “Rumble in the jungle”: un nome, un progetto. Gli sfidanti erano un “vecchio” Mohamed Alì (proveniente da una sonora sconfitta contro “Smoking” Joe Frazier) e un giovane neo campione del mondo: George Foreman, ragazzone di quasi 2 metri per 120 kg. che aveva imparato a boxare facendo, come detto, sparring partner a Sonny Liston, e che per gioco si divertiva a sfondare a pugni sacchi pesanti da 80 kg. di cuoio, facendone buchi da cui usciva la sabbia, materiale compresso idoneo a rendere grave il sacco, di certo più duro di un corpo umano.

L’antefatto, la cosa più sorprendente, è che colui che aveva vinto atterrando Alì, riuscendo a mantenere il titolo, “Smoking” Joe, è lo stesso che fu spazzato via, in sole due riprese dopo sette atterramenti da Big George, lo stesso che si dovette inchinare, nel vero senso della parola, e concedere il titolo al ragazzone del Texas. Come al primo match per il titolo di Alì, quello con Liston, i bookmakers davano perdente lo “stanco” Alì; d’altronde, come non credergli, troppo vecchio lui, troppo giovane l’altro. L’incontro fu un vero e proprio inferno. Vi erano circa un milione di persone tra coloro che erano riusciti ad avere un biglietto, e coloro che erano fuori ad immaginare lo scontro. Si svolse in una arena aperta, per la precisione nello Stade Tata Raphael, con una temperatura che si aggirava intorno ai 35 gradi centigradi.

Fin dalle prime riprese, la tecnica del campione fu chiarissima, puntava a distruggerlo al corpo e alla testa, sferrando incessantemente scariche terrificanti di pugni; la tecnica del contendente invece non fu così chiara dall’inizio, gli stessi telecronisti (tra cui v’era anche un attempato Joe Louis) dichiararono che mai si sarebbero aspettati l’epilogo che fu, visto che, citando le parole di Louis: “Io stesso non sarei riuscito a reggere tre riprese di fila a subir tanti colpi, figuriamoci per 8 round” (Joe Louis, tutt’ora, detiene il record del peso massimo che ha difeso il titolo per più anni e match).

Angelo Dundee, allenatore di Alì dall’inizio alla fine della carriera (1960-1981), disse che l’unica volta che vide la paura negli occhi di Mohamed fu quella sera; disse che si immaginava benissimo ciò che pensava in quel momento Ali, disse che aveva trovato qualcuno che non riusciva a domare, un leone pieno di forza, che non conosceva paura, giovane e determinato. Dundee disse che fino all’ottava ripresa dubitò seriamente che potesse vincere quel match, ebbe vera paura di perdere il suo ragazzo.

WhatsApp-Image-20160610Beh, così non fu. Alì passò tutto il match a parlare, più forte Big George picchiava e più forte Mohamed rideva, urlava, lo derideva. Alla fine dell’ottava ripresa, dopo l’ennesima sfuriata del grande George, Alì gli si avvicinò all’orecchio e gli disse: “E’ tutto qui quello che sai fare? Mi deludi, George, non mi fai male”, lo allontanò, sferrò un diretto sinistro e un diretto destro, e diventò leggenda.

Lo stesso George disse qualche anno dopo: “Mi mandò giù senza tirarmi quel colpo che ogni pugile tira, senza mai tirarmi il colpo definitivo. Lì capii che non avevo davanti un campione, che non avrei mai potuto batterlo, avevo davanti una leggenda”. Mohamed Alì era quello. Mohamed Alì voleva essere conosciuto e chiamato col nome di Mohamed Ali, e nessuno dovrebbe più permettersi di chiamarlo Cassius Clay. Mohamed Alì combatteva prima con se stesso, e dev’essere stata ardua quell’infinita battaglia fra il suo fisico e la sua anima. Nessun uomo era e fu in grado di batterlo quando ancora conservava un briciolo di fisicità. Alì scese più volte all’inferno e risalì dall’inferno, come lui stesso affermò, e si portava dietro i malcapitati avversari, ma, diversamente da loro, chi poi si trovava ancora lì, pronto per combattere, era sempre e solo lui.

L’arte del pugilato è qualcosa di diverso da ogni altro sport. Su un ring conosci davvero la persona che hai davanti, non c’è modo migliore per capire pregi e difetti, paure e virtù di un uomo. E gli uomini, i grandi campioni che ha incontrato, alla fine, pur essendo più forti e più giovani, più alti e più pesanti, si sono dovuti inchinare alla leggenda, schiacciati da uno spirito che quasi non pareva di questo mondo. Alì era dignità, coraggio, caparbietà. Alì era il pugilato e il pugilato era Alì. Alì era grandezza, era un profeta, e, il 3 giugno del 2016, il profeta è tornato lassù, assieme al suo grande compagno, avversario e poi amico di battaglie: Joe Frazier.

 

Per approfondire il contesto socio-politico della vita di Mohamed Alì, leggete l’articolo di Barbara Palla per Inchiostro : Muhammad Alì, the Greatest?

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