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Un anno senza Kobe Bryant: l’eredità della Mamba Mentality

«In Africa c’è un adagio che dice: nella boscaglia, un elefante può ucciderti, un leopardo può ucciderti e un Black Mamba può ucciderti, ma solo con il black mamba – e questo è vero in Africa fin dall’alba dei tempi – la morte è sicura. Da qui il suo soprannome: la morte incarnata». Sono le parole con cui Beatrix Kiddo, nel film Kill Bill: Volume 2 (Quentin Tarantino, 2004), descrive il micidiale serpente in grado di uccidere un uomo tra i 20 minuti e le 4 ore. Per molti giocatori e appassionati di basket, tuttavia, il Black Mamba non è un animale, ma una persona. O forse addirittura una leggenda: Kobe Bryant.

Esattamente un anno fa, a Calabasas, in California, alle ore 9:45 – 18:45 in Italia – Kobe si schiantava contro una collina sul suo elicottero, insieme alla figlia tredicenne Gianna. Oggi il ricordo di Kobe ci fa soffrire più del solito, ma la verità è che i capolavori tecnici del Black Mamba e le lezioni che ci ha impartito resteranno sempre con noi.

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Kobe Bryant e la figlia Gianna
Fonte: Allen Bezerovsky

Kobe stesso aveva scelto il suo soprannome nel 2004, proprio dopo aver visto il film di Tarantino. La spietata voglia di colpire e l’invincibilità del serpente erano infatti le stesse caratteristiche che lui voleva dimostrare durante le partite.

Di solito gli sportivi non scelgono autonomamente i loro soprannomi, ma li ricevono da altri in modo passivo; la personalità di Kobe, invece, era diversa, travolgente. Lui non voleva essere raccontato, bensì raccontarsi. Scelse pertanto di servirsi del Black Mamba come di un simbolo a cui collegarsi. Simbolo del suo approccio al gioco e della sua mentalità, come recita anche il titolo della sua autobiografia, pubblicata nel 2018: The Mamba Mentality: How I Play.

La Mamba Mentality si concretizzava per Kobe in una costante ricerca della vittoria, sugli avversari e sui propri limiti. Per raggiungere questo scopo non esistono molte scorciatoie: l’unico metodo è allenarsi ripetutamente, specialmente quando gli altri non lo fanno. La routine di allenamento di Kobe cominciava alle 5 di mattina, spesso per provare e riprovare singoli gesti tecnici fino allo sfinimento. Stesso identico tiro per ore dalla stessa identica posizione. Quando si fratturò la mano destra imparò addirittura a giocare con la sinistra, per non smettere di allenarsi.

Se dunque la vittoria è il tuo unico chiodo fisso, anche gli stessi compagni di squadra possono costituire un ostacolo, se non si esprimono al massimo delle loro potenzialità: diversi sono gli episodi in cui Kobe si è mostrato cinico nei loro confronti, quasi crudele. Un caso eloquente risale al 2008, quando in squadra con Kobe c’era lo spagnolo Pau Gasol. I Los Angeles Lakers – squadra per cui Kobe ha giocato fin dagli esordi in NBA nel 1996 – avevano perso la finale del campionato con i Celtics. Alle Olimpiadi di Pechino pochi mesi dopo la Spagna venne sconfitta in finale dagli USA. Kobe credeva che Pau avesse bisogno di un incentivo per giocare meglio: non era soddisfatto delle sue prestazioni, soprattutto in termini di aggressività.

Consapevole di quanto la sua nazionale significasse per il compagno, decise di presentarsi in allenamento indossando la medaglia d’oro olimpica e poi gliela appese nell’armadietto. A causa di quel gesto meschino Pau si arrabbiò al punto di definire Kobe un asshole. Ciononostante, le conseguenze furono all’altezza delle aspettative. Pau riprese a contribuire in maniera poderosa nei confronti della sua squadra e la trascinò alla vittoria di due anelli – cioè titoli NBA – di fila.

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Kobe Bryant e Pau Gasol in una partita contro i Dallas Mavericks il 2 aprile 2013
Autore: Danny Moloshok| Ringraziamenti: REUTERS

Si può pensare che un campione di questo genere, così ossessionato dal gioco, fuori da un campo da basket non valga più nulla. Una sorta di macchina da guerra senza scrupoli, in grado di funzionare solo davanti a un canestro. Kobe, invece, dimostrò che la sua Mamba Mentality era un modello applicabile ad ogni ambito dell’esistenza.

Il ritiro dalle competizioni – avvenuto nel 2016 – si trasformò per lui in una seconda vita. Kobe Bryant divenne un imprenditore di successo, rendendo quel Black Mamba una creatura in grado di respirare anche fuori dal suo habitat naturale.

L’ossessione per la vittoria, in ogni campo e in ogni tempo, permise a Kobe di ottenere addirittura un Oscar per il miglior cortometraggio nel 2018. Dear Basketball – scritto da Kobe Bryant e diretto da Glen Keane nel 2017 – è una lettera composta al termine della carriera, per quello sport a cui aveva donato la sua intera vita di ragazzo. Fin da quando da bambino si divertiva a fare canestro nel cestino dei rifiuti, con i calzoni del padre arrotolati a formare una palla. Il cortometraggio venne realizzato grazie alla Granity Studios, la società di produzioni multimediali da lui fondata per la “creazione di nuovi modi per raccontare storie incentrate sullo sport. Storie pensate per divertire, mettendo insieme la componente educativa e d’insegnamento con quella di essere fonte di ispirazione”.

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Kobe Bryant alla cerimonia di premiazione degli Oscar 2018
Autore: Alberto E. Rodriguez| Ringraziamenti: Getty Images

Ecco la piena evoluzione del Black Mamba: da campione vincente a eroe da cui gli altri possono imparare. Seguendo questo nuovo progetto, nel 2016 Kobe decise di fondare la Mamba Sports Academy: un centro polisportivo per bambini e ragazzi con i più svariati campi di allenamento – dal beach volley all’atletica – e programmi di allenamento professionali.

Il suo obiettivo era trasmettere ai più giovani ciò che aveva imparato in quei lunghi e pesanti anni da giocatore, ovvero la Mamba Mentality stessa.

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Fonte: John Bazemore

Ma qual è dunque il nucleo della Mamba Mentality?

Kobe stesso l’ha descritta ai giornalisti di Lineadiretta24, durante un tour promozionale della Nike a Milano nel 2016:

“Dentro e fuori dal campo è la stessa cosa. È importante capire che Mamba Mentality vuol dire che la cosa che stai facendo in questo momento è la più importante. La concentrazione è la cosa più importante, non stai pensando a cosa succederà stanotte o cosa è successo stamattina. Stai pensando a questo momento”.

Anche un passaggio di Dear Basketball è fondamentale per cogliere il concetto alla base della Mamba Mentality: Kobe racconta che la pallacanestro lo faceva sentire vivo, e per questo se ne era innamorato. In ciò consiste il più grande insegnamento che Kobe Bryant ci ha lasciato, la vera essenza della Mamba Mentality: troviamo qualcosa che dia un senso alla nostra vita e dedichiamogli ogni minuto del nostro tempo.

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