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A confronto| Muhammad Alì, the Greatest?

[Photo credits: Ap]

 

Ci sono gli sportivi superstar, innegabile talento, esempio di fair play, idoli dei giovani, e poi ci sono gli sportivi che cambiano le generazioni. Di Muhammad Alì si ricordano le prestazioni sul ring ma anche il personaggio sfacciato e arrogante, la furbizia e le mille citazioni. Una dimostrazione, non l’unica, che l’impegno sociale-politico e lo sport non sono che facce della stessa medaglia. Due facce di una stessa medaglia capace di cambiare una generazione.

Il cambiamento era già in atto da prima. A Berlino nel 1936, Jesse Owens, nero americano, sfidò la potenza del Nazismo con ben quattro medaglie d’oro. L’ultima delle quali la contese con un suo amico, “fratello” per come si chiamavano tra di loro, Luz Long, tedesco, ariano, ufficiale della Luftwaffe. Un’amicizia che rimase un ricordo dato che, nel 1938, Long fu chiamato a combattere (cosa che il suo status di atleta internazionale gli avrebbe dovuto risparmiare) mentre Owens dovette tornare a casa e riadattarsi alle rigide regole della segregazione razziale.

Decenni dopo, superata la guerra, venne il momento dei movimenti per i diritti civili. La società americana si stava trasformando, si stava spaccando, si stava muovendo verso l’integrazione. Pochi mesi dopo la morte di Martin Luther King, leader storico del movimento per la parità dei diritti, alle Olimpiadi di Città del Messico, si ebbe la dimostrazione di quanto quella generazione fosse cambiata, così tanto da coinvolgere anche gli atleti e gli sportivi americani. I due corridori, Tommy Smith e John Carlos, entrambi neri, dopo la gara sui 200m, salirono sul podio a piedi nudi e pugno alzato, il gesto delle Pantere Nere (partito rivoluzionario di ispirazione marxista pronto a prendere le armi per la ribellione degli afroamericani). Un gesto che quindi non intendeva dedicare la vittoria ad un paese, l’America, ma a un gruppo sociale preciso discriminato e perseguitato, i Neri americani.

Ma erano stati elementi sporadici, nessuno di questi atleti era riuscito a spingersi oltre la propria impresa, rispettabile e importante certo, ma limitata nel tempo. Muhammad Alì è riuscito ad andare oltre, per questo egli rimane “Il Più Grande”.

La sua carriera di pugile inizia a Louisville (Kentucky), si fa notare da subito per la sua velocità e il suo talentoFoto credits: Ap, entra nella squadra olimpica americana e ottiene la sua consacrazione a Roma alle Olimpiadi del 1960. Mentre Abebe Bikila vinceva il primo oro nelle gare di corsa per un paese africano indipendente (è vero era l’Etiopia, che non è mai realmente stata una colonia, ma comunque il simbolo di un etiopico che vinceva a Roma era forte), sul ring si affermava il giovane atleta Cassius Clay, che oltre al talento e le innegabili doti sportive, aveva stupito tutti con il proprio atteggiamento. Il giorno dei suoi venti anni, due anni dopo, dichiarò tranquillamente in un’intervista che avrebbe battuto il record di Floyd Patterson, la più giovane medaglia d’oro nei pesi medi alle Olimpiadi di Helsinki nonché campione del mondo dei pesi massimi tra il 1956 e il 1962. “Questo mi lascia un anno per raggiungere il mio obbiettivo” disse con massima serietà. Sfacciato, presuntuoso (per sua stessa ammissione), divertente, carismatico e con una parlantina notevole, ha promesso a tutti, con il primo oro al collo, che sarebbe diventato il campione del mondo.

Promessa mantenuta: nel 1964, manda al tappeto Sonny Liston e diventa campione del mondo per la categoria dei pesi massimi. L’incontro lo affrontò così:

I’m young, I’m handsome, I’m fast, I’m pretty and can’t possibly be beaten

Da quell’incontro, iniziò il suo apogeo sportivo, era il più forte e sportivamente non aveva rivali. Ma il 1964 era anche l’anno della sua conversione all’Islam, alla quale seguì il cambio legale del nome in Muhammad Alì (i due nomi fondatori dell’Islam, Muhammad, il Profeta e Alì suo migliore amico, nonché riferimento massimo per la comunità sciita musulmana). La religione fu il momento della liberazione. Il suo nome precedente Cassius Marcellus Clay Jr. era il suo nome da schiavo, il soprannome conferitogli dall’uomo bianco che lo aveva messo in catene. Con quella scelta non si inventava mica nulla, seguiva la china di un movimento già iniziato, quello di Malcolm X e della Nazione Islamica (Nation of Islam). Ciononostante aveva preso una posizione molto forte, in un contesto sociale, quello americano, che si stava trasformando, in un periodo, quello di Malcolm X e Martin Luther King, che sembrava ancora pieno di possibilità (saranno entrambi assassinati rispettivamente nel 1965 e nel 1968).

Il campione sceglieva da che parte stare, sceglieva di dare un messaggio, un messaggio non solo religioso ma di ricerca della libertà che, bisogna ammettere, lasciava pochi spazi al compromesso.

Nel 1967, infatti quando venne chiamato alle armi come leva per la guerra in Vietnam, si rifiutò perché riconosceva di non avere nessun problema personale con i Viet Cong (Viet Cong never called me “nigger”) e in ogni caso la sua religione lo portava ad opporsi alla guerra. Condannato a cinque anni di reclusione per resistenza alla leva e gli furono ritirati tutti i premi. Nessun compromesso, si allontanò dal ring senza i suoi titoli, ancora imbattuto in carriera e certo di essere odiato da tutti quei conservatori che vedevano in lui una minaccia: nero, musulmano, appartenente alla Nazione Islamica e per giunta contrario alla difesa della sua nazione, quella americana, nel momento del bisogno, il caso era chiuso.

Ma lui era Muhammad Alì ed era il più forte.

Continuò ad allenarsi, tre anni dopo quando poté tornare a combattere per decisione della Corte Suprema, al Madison Square Garden, soccombette per la prima volta a Joe Frazier, la sua prima sconfitta. Ma tre anni più tardi, nel 1974, gareggiava comunque per il titolo mondiale contro l’avversario a sorpresa George Foreman.

Quell’incontro passò alla storia per un milione di motivi, non solo perché segnò il momento più epico del ritorno del Champ sul ring, ma perché, anche in questa occasione, Alì riuscì a mandare un messaggio politico e sociale.

L’organizzatore dell’incontro, Don King, aveva promesso ai due pugili circa cinque milioni di dollari per uno per il combattimento, ma doveva trovare chi fosse disposto a pagarli e ad ospitare l’incontro. Nessuno riuscì a soddisfare l’offerta e alla fine fu Mobutu Sese Seko, presidente dello Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo) a metterceli.

Sulla scelta di Kinshasa come città simbolo dell’incontro si potrebbe discutere delle ore. La situazione politica interna, la modalità con la quale Mobutu aveva preso il potere, la disastrosissima guerra seguita alla secessione del Katanga, erano tutte ferite ancora fresche e sulle quali ancora oggi ci sono dubbi e difficoltà di interpretazione. Dall’altro lato però, erano gli anni ’70, fatta eccezione per Angola e Mozambico che erano ancora sotto le grinfie del Portogallo, l’Africa era diventata indipendente. Già da molti anni prima, si era sviluppato il mito della terra natia, della Madre Africa che finalmente poteva ricevere i suoi figli che gli erano stati ingiustamente portati via. Portavoce del mito e del movimento era Marcus Garvey, un giamaicano nero, che aveva ispirato i movimenti della Nazione Islamica (alla quale Alì apparteneva) e la comunità Rastafari africana. Un mito del ritorno alle origini, alla terra dei padri, al tempo in cui i Neri non erano schiavi, che aveva ancora più presa in quel periodo e in quella America.

La scelta di Kinshasa potrà sembrare dunque azzardata per un evento di rilevanza così importante, per una pubblicità così grossa, ma indubbiamente il significato era forte e riportava l’Africa al centro della scena internazionale e sportiva. L’incontro era l’occasione per una qualche sorta di emancipazione dei Neri socialmente e artisticamente influenti in America, allo stadio, infatti, si esibirono anche James Brown, B.B. King e gli Spinners.

We gonna rumble in the jungle.

foremanL’incontro fu epico. Dalla sua preparazione nelle settimane precedenti fino alla gara stessa. Alì aveva conquistato la folla congolese (all’epoca ancora Zaire) per il suo essere anti-establishment, anche se di fatto era profondamente americano. Foreman era percepito, invece, come un superbo a stelle e strisce, per quanto nero, lontano dalla realtà, dalla vita comune delle persone. Alì si allenava per strada, con i ragazzini che lo seguivano e correvano con lui. Ma correvano dietro ad uno che alla base non c’entrava niente con quella realtà e che era lì per i soldi, lo sport e per la volontà di critica internazionale, ma che, in qualche strano modo, li identificava, ne subivano il fascino e il carisma, l’immediatezza e sentivano la loro voce nella sua.

Dopo settimane in un trash talking mediatico dell’uno contro l’altro, fenomeno che sicuramente aumentò le aspettative, Alì vinse l’incontro fregando Foreman all’ottavo round. Per tutti i round precedenti aveva incassato con furbizia, mentre all’ultimo quando sembrava finito, riuscì a mettere il suo avversario al tappeto. ”La furbizia batte la forza bruta” si disse, sì insomma non è che fosse proprio esile Alì, di forza bruta ne aveva, ma lui era the greatest.

Dopo quell’incontro iniziarono anche le sue sconfitte, la più scottante fu quella contro il giovanissimo Larry Holmes, suo sparring partner nella preparazione all’incontro di Kinshasa. Nel 1981, si ritirò dal ring definitivamente, già probabilmente ammalato. Nel 1996, nel suo ruolo di tedoforo olimpico ad Atlanta, la malattia era diventata evidente. Le apparizioni pubbliche si facevano sempre più rare e della sua ultima battaglia non ha potuto fare uno spettacolo, anche se il suo coinvolgimento lo ha spesso portato agli eventi di beneficenza e filantropia nel sostegno alla ricerca di una cura. Si è fatto portavoce del cambiamento anche in questo caso dando il proprio nome ad una fondazione per lo sviluppo delle medicine. E nonostante tutto non ha mai smesso di essere un personaggio politico, dato che dal 1998 era diventato Messaggero della Pace delle Nazioni Unite per il suo impegno nei Paesi in via di sviluppo.

 

– Se fossi in te starei zitto

– Ma lo sai che questo è impossibile

– No no devi tacere

– Non ci riesco. Sono il più grande. Posso mettere al tappeto chiunque, e se fai troppo lo spiritoso metto al tappeto pure te!

 

Per farvi un’opinione sul personaggio consiglio a tutti la visione del film documentario When We Were Kings di Leon Gast. Per appronfondire l’aspetto sportivo leggete l’articolo di Gabriele Citro per Inchiostro: Alì, la soglia fra uomo e leggenda.

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