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Forme poetiche e colloquiali nel linguaggio del giovane Fabrizio De André

Fabrizio De André rappresenta senza dubbio il versante più togato della canzone italiana: santificato già in vita, e successivamente deificato grazie anche alla prematura morte, subisce per primo la sorte della destinazione scolastica, comparendo già dalla seconda metà degli anni ’90 nelle antologie per le scuole, per altro con suo grande rammarico, per non dire fastidio.

La carriera di De André (1961-1998), costellata da un numero relativamente basso di album in studio (tredici) e di brani (circa un centinaio), è ricca di episodi e momenti che da soli meriterebbero un’analisi linguistica a sé stante, si pensi per esempio anche soltanto alla ripresa del dialetto genovese antico in Creuza de mä, 1984, o alle riscritture dei vangeli apocrifi ne La buona novella, 1970, o dell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters in Non al denaro, non all’amore né al cielo, 1971.

Soffermandosi per ora solo sul primissimo De André, si può notare che vi convivono da subito entrambe le tendenze linguistiche della rivoluzione cantautorale degli anni ’60 e ’70: da un lato una spinta di carattere poetico e dall’altro una tensione al parlato quotidiano. In De André non troviamo però, se non raramente, gran parte dei tratti della grammatica dei poeti ermetici, perché predilige quasi sempre un’impostazione fortemente narrativa (suo scopo è quello di raccontare storie, infatti viene più volte chiamato proprio cantastorie); l’evocazione viene affidata ad una sintassi nominale, irrelata e rarefatta, e soprattutto alle immagini, sempre costruite con grande sapienza retorica e con cura linguistica sopraffina. Due testi particolarmente celebri possono illustrare tutto questo.

La guerra di Piero (1964) è costruita su due piani strutturali: il narratore che narra la storia è diegetico e dialoga con lo stesso Piero mentre si trova sul fronte, come se in qualche modo potesse sentirlo; in questo senso vanno letti gli imperativi che si affollano in questa porzione di testo (fermati, sparati), in netta contrapposizione con gli imperativi imploranti in voga nella canzone più classica. Il punto di vista del narratore anonimo è quello di De André, che riesce così a dire la sua sulla guerra, esprimendosi con un linguaggio molto semplice, reso ancora più dolce dalle rime baciate (grano:tulipano; ora:ancora; lamento:momento), le quali spesso sono imperfette, quindi consonanze (morire:vedere) o assonanze (artiglieria:cortesia). Alle parole del narratore si contrappongono invece i monologhi ad alta voce di Piero, pensati come veri e propri pezzi di dialogo con sé stesso, ma pronunciati a voce alta, come se riecheggiassero nel campo di battaglia invernale. Il lessico è per questo volutamente e marcatamente colloquiale (per esempio la forma crepare) e i costrutti sono quelli del parlato, con anacoluti e dislocazioni («dritto all’inferno / avrei preferito andarci d’inverno»), ma anche iterazioni («ma il tempo a me resterà per vedere / vedere gli occhi di un uomo che muore»; «ci vuole tanto, troppo coraggio»). Quest’impostazione di carattere colloquiale è la stessa dei compaesani Luigi Tenco e Gino Paoli, ma De André si spinge oltre, impreziosendo il testo con figure retoriche mutuate dal linguaggio poetico, come le metafore («marciavi con l’animo in spalle»; «stringevi parole / troppo gelate per sciogliersi al sole») o la prosopopea («e mentre il grano ti stava a sentire»), nonché una precisione lessicale volta a creare effetti di contrasto («dentro la bocca stringevi parole / troppo gelate per sciogliersi al sole»; «che aveva lo stesso identico umore / ma la divisa di un altro colore») o di corrispondenza («non è la rosa, non è il tulipano / che ti fan veglia dall’ombra dei fossi / ma sono mille papaveri rossi»).

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La città vecchia (1965), ispirata vagamente ad un omonimo testo di Umberto Saba, ha invece una costruzione tutta indirizzata ad un ipotetico tu che si inoltra nei «quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi», ossia i carruggi genovesi, popolati da gente tutt’altro che perbene. Questo dialogo fittizio con un ipotetico visitatore è ricco di continue allocuzioni («quel che ancor non sai tu lo imparerai», «se tu penserai e giudicherai da buon borghese»), deittici («li troverai là»), anche ridondanti, con dislocazione, com’è tipico del parlato («se ti inoltrerai lungo le calate dei vecchi moli […] / lì ci troverai i ladri, gli assassini»), nonché voci colloquiali («micio bello e bamboccione»), anche con prefissazione rafforzativa (stratracannare, stramaledire); non mancano infine imprecazioni popolari («dove sono andati i tempi di una volta, per Giunone! ») o vere e proprie espressioni idiomatiche («ti alzerai disfatto rimandando tutto al ventisette», «di esser stato preso per il sedere»), nonché, nella versione non censurata, la caduta fino al turpiloquio («quella che di giorno chiami con disprezzo “specie di troia”»). Lo schema è ancora quello della rima baciata (presente una sola consonanza); alla fine troviamo invece una terzina di versi a rima alternata, con un solo verso completamente irrelato dagli altri («se non sono gigli son pur sempre figli»): si tratta del verso che riassume la morale di tutta la canzone, per cui l’assenza della rima fa subito cadere lì l’attenzione dell’ascoltatore. In questo tessuto impregnato di colloquialità non mancano le sapienti costruzioni retoriche, come le suggestioni di carattere sinestetico («in quell’aria spessa carica di sale / gonfia di odori«») o le metafore che si estendono addirittura in più versi e in vere e proprie perifrasi («nei quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi / ha già troppi impegni per scaldar la gente d’altri paraggi» – da notare il cambio di progettazione sintattica, altro tratto tipico del parlato; «se non sono gigli son pur sempre figli / vittime di questo mondo»).

Nel primissimo De André quindi quotidianità linguistica e ricerca stilistica vanno di pari passo, intessendo una lingua adatta per parlare a tutti, per parlare di ultimi, diseredati e dissidenti, ma senza privarla di quello spessore che nel corso della sua carriera diventerà sempre più curato, di sapore sempre più letterario, e di fattura sempre più pregiata.

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