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Il Festival numero 68 e la mano di Baglioni

Cala il sipario sulla sessantottesima edizione del Festival di Sanremo, targato Claudio Baglioni. Sì, è stato ribadito ad ogni sera sempre di più: questo è stato il festival del direttore-dittatore Claudio Baglioni. Gli ascolti hanno dato tutti ragione al cantautore romano: è stato il festival più seguito in media degli ultimi vent’anni, nonostante la Rai avesse previsto un grosso calo rispetto alle ultime due edizioni targate Carlo Conti.

La mano di Baglioni si è vista dovunque, a partire dalla costruzione della squadra e del format. Niente presentatore classico, niente vallette con farfalline più o meno in vista, niente cantanti o attori che giocano a fare i presentatori. L’unica vera presentatrice è stata Michelle Hunziker, che nello stesso tempo è stata anche showgirl e valletta; Pierfrancesco Favino è stato attore e uomo di spettacolo a tutto tondo: ha cantato, ballato, recitato in gag più o meno idiote, e incantato con il monologo sugli stranieri nella serata finale. Baglioni ha fatto il suo mestiere: il cantautore e teorico della canzone, nel lungo monologo iniziale, pieno di immagini e metafore, e poi ha fatto il cantante, cantando diversi dei suoi cavalli di battaglia, e duettando con tantissimi ospiti negli omaggi.

La mano di Baglioni si è vista nella scrittura dello spettacolo: tantissime le citazioni e le riprese di scene di Anima mia, varietà condotto da Fabio Fazio nel 1997 proprio in coppia con Baglioni, che per la prima volta nella vita si metteva in gioco sciogliendosi dal suo ruolo di cantante, e riscoprendosi con una dose molto grassa di ironia (ne è uscito perfino un album intitolato proprio Anime in gioco); lo spettacolo ha avuto al centro la musica, come più volte preannunciato: tutti devono cantare (anche la non intonatissima Hunziker), o avere a che fare con le canzoni (così i vari giornalisti che sono intervenuti, anche se forse se ne poteva fare a meno), o al massimo con performance, e non monologhi (vedi gli show di Nino Frassica e del Mago Forest). La mano di Baglioni si è vista in quello che è stato l’aspetto sicuramente più criticato del suo festival: la sua presenza massiccia come cantante e interprete, in canzoni sue, ma anche in canzoni di altri, tanto che a molti lo spettacolo è sembrato un gran concerto di Baglioni, con la partecipazione dei cantanti in gara e degli altri ospiti. La personalità egocentrica di Baglioni è nota a chi lo segue da diversi anni: show, concerti, album e spettacoli sono dalla seconda metà degli anni ’90 tutti incentrati sull’esaltazione della sua figura; il Festival non poteva essere da meno. Giusto o sbagliato, è difficile da dire, perché, come tutte le scelte decisive, potrebbe piacere o non piacere. Ma un dato è certo: Baglioni ha dato la sua impronta autoriale al Festival, riuscendo a scardinare le regole di un format tendenzialmente sempre simile a sé stesso, riportando in auge il grande varietà degli anni ’70, ma con una freschezza tutta della nostra contemporaneità (lo si percepisce anche dagli arrangiamenti delle canzoni eseguite, che sembrano scritte l’altro ieri, nonostante abbiano visto almeno dalle 25 alle 40 primavere).

La mano di Baglioni si è vista nella scelta degli ospiti, mai così oculati e studiati alla perfezione nelle serate e nelle performance: Fiorello all’inizio è stato un colpo di genio (e solo Baglioni è riuscito a riportarlo al Festival, dopo anni di corteggiamento), Virginia Raffaele al posto giusto e al momento giusto, idem Gino Paoli, il gigante Vecchioni (e il suo meraviglioso monologo sulle canzoni, che ha fatto pendant con quello di Baglioni della prima serata) e le super star Sting, James Taylor e Laura Pausini, con una strizzata d’occhio al pop con Nek, Renga, Pezzali (che poteva stare tranquillamente a casa vista la storpiatura di Strada facendo) e Antonacci.

La mano di Baglioni si è vista infine e soprattutto nella scelta delle canzoni: raramente si è vista una quantità di generi così rappresentati e una scelta di canzoni tendenzialmente anti-sanremesi. Dalla rivelazione de Lo stato sociale, che in realtà da diversi anni proseguono la tradizione gramsciana-demenziale aperta proprio a Bologna dagli Skiantos, fino alla fine e raffinata canzone d’autore contemporanea di Max Gazzè, passando per i classici sanremesi di Caccamo e Annalisa (che infatti finisce sul podio) e per la canzone d’autore più storica, rappresentata dal brano di Lucio Dalla cantato da Ron, lasciando spazio anche al pop italiano ormai in decadenza dei Pooh, ma che sicuro ha fatto emozionare qualche nostalgico. Alla fine ha vinto Non mi avete fatto niente, di Ermal Meta e Fabrizio Moro, due autori molto interessanti del pop contemporaneo, usciti vincitori dalla presunta questione di plagio, che in realtà si è rivelata essere una questione burocratica causata da cavilli di un regolamento Rai scritto veramente male. La canzone è bella, con punte molto originali e un refrain coinvolgente, per cui alla fine la vittoria è meritata, anche se Almeno pensami, La leggenda di Cristalda e Pizzomunno e Imparare ad amarsi restano pezzi indubbiamente migliori (e notevoli sono almeno anche Lettera dal Duca e Il coraggio di ogni giorno, con atmosfere che dai Pink Floyd arrivano fino al soul). La canzone di Meta-Moro porta con se però un rischio: il grande pubblico infatti potrebbe pensare che basta fare una canzone impegnata per fare una bella canzone, ma non è certamente così, nonostante ci sia bisogno di ribadire certi temi, forse con un po’ meno stucchevolezza retorica.

Un’ultima parola sui giovani: tantissimi brani, troppo diversi uno dall’altro, dall’originale e surreale divertissment grammaticale di Lorenzo Baglioni, fino al brillante Mudimbi, o allo struggente recitativo di Mirkoeilcane, che ha fatto riecheggiare nell’Ariston il compianto Signor tenente di Giorgio Faletti (il giovane andrà sicuramente seguito nel suo futuro): alla fine vince Ultimo, con un brano pop che premia il gusto del grande pubblico.

Insomma, aldilà dei gusti, la mano di Baglioni ha vinto su tutto il Festival, confermandone la sua anima: un grande contenitore della popolarità italiana, una ritualità collettiva della nostra cultura popolare, e uno strumento di riverbero del sentimento pubblico. Che, in periodi come questi, non è affatto qualcosa di scontato.

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