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Pinocchio: del fare, del creare e della morte

L’allestimento di Antonio Latella ha sollevato molte critiche, ma c’è un punto su cui trovarci tutti d’accordo: Pinocchio non lascia indifferenti. Fin dall’inizio il pubblico è messo di fronte ad uno spettacolo eccessivo. Per partire dalle ovvietà, non si può fare a meno di notare la recitazione di altissimo livello e la scenografia impressionante. Gli attori, tutti e in particolare il protagonista, Christian La Rosa, danno concretezza a personaggi inarrestabili, frenetici, infine esausti.

Ph.: Brunella Giolivo

Davanti a tale frenesia ci si trova necessariamente spiazzati o persino infastiditi, ma l’eccesso è il contraltare necessario ad un finale essenziale, silenzioso, commovente. Bisogna abituarsi alle voci gridate, all’atmosfera della scena, alla stessa lingua messa in bocca agli attori, perché questi elementi sono le fondamenta di un binomio che vede schierati da un lato un universo falso ed esibito, nel quale le pagnotte sono giganti ma immangiabili e le barbe platealmente finte, e dall’altro un vero ridotto all’osso: una candela, una pentola di fagioli e un tavolo attorno al quale si svolge l’incontro finale tra padre  e figlio.

Il discorso sulla finzione è ampliato dalle parentesi meta-teatrali, dove Pinocchio e Geppetto, legati a doppio filo in un gioco preciso di ritmi e movimenti, si spogliano della loro maschera per confrontarsi con il pubblico. Ma non finisce qui, e il meccanismo si fa ancora più complesso all’inizio del secondo atto, nel corso di un dialogo tra  la Fata Turchina e Pinocchio in cui si arriva a citare l’opera originale di Collodi ed il Giornale per i bambini su cui venne pubblicata. Questo dialogo, collocato al centro dello spettacolo, è anche nodale per affrontare un tema intrinsecamente teatrale come la morte. La Fata spiega a Pinocchio che lui non può morire e che deve continuare le sue avventure, perché di questo hanno bisogno i vivi, lettori o spettatori che siano, per comprendere e accettare la morte. In altri termini potremmo dire che Pinocchio soffre per noi sulla scena, per svelarci il mondo in continua metamorfosi e le grandi dicotomie che lo attraversano.

Ph.: Brunella Giolivo

Nel suo viaggio Pinocchio cade e si rialza di continuo, incontra ogni tipo di realtà, è costretto dalla vita a scandagliare ogni aspetto di sé: è una cosa, un ragazzo, un figlio; e ancora è ingenuo, meschino, adirato o volgare. Un attimo prima disperato e subito dopo in piedi ad imprecare, a ridere oppure a balbettare come un bambino che dà un nome alle cose man mano che le scopre. Pinocchio è un povero attanagliato dalla fame e si imbatte tanto in altri affamati e poveracci, spesso senza scrupoli,  quanto in padroni che dei poveri fanno bottino. Questo panorama prende vita grazie al magistrale apporto di tutti gli interpreti, con una menzione speciale per Massimiliano Speziani nelle vesti non solo di un Geppetto al pari goffo e dispotico o persino inquietante, ma anche, e non a caso, di Mangiafuoco o del Giudice che incarcera Pinocchio.

In egual misura è protagonista della finzione l’imponente scenografia, che come ogni altra illusione finisce per rivelarsi alla platea nella nuda essenza di meccanismo scenico, per poi immergersi nella penombra dell’ultimo quadro e farci concentrare sul profondissimo dialogo conclusivo. Un dialogo che tenta di trarre le ardue conclusioni: cos’è un padre? Cosa significa dare vita ad un figlio? Come si può amarlo? Come si affronta la morte?

Ph.: Brunella Giolivo

Il Pinocchio proposto dal Piccolo Teatro è dunque un mosaico intricato e stupefacente. Ma con un rischio: la vastità della scena e dei temi trattati può portare chi guarda più a perdersi che a sentirsi appagato.  Il regista non propone una sola prospettiva, sembra cercare invece di rendere sul palco la complessità e l’esplosività del testo di Collodi, correndo il pericolo di trascurare una costruzione omogenea, ma non piatta, che è suo compito orchestrare. Nonostante ciò bisogna riconoscere che un grande obiettivo è stato raggiunto: dimostrare cosa il teatro sia in grado di fare, quanto possa essere potente e necessario alla vita culturale di ciascuno.

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