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“Atti osceni” all’Elfo: l’umano sotto processo

Al Teatro Elfo Puccini, l’occasione per la messa in scena è propizia: un processo, o meglio, I tre processi che condannarono Oscar Wilde, fustigatore indefesso dell’ipocrisia vittoriana, a due anni di lavori forzati. Di fatto la morte civile, l’agonia spirituale, la decadenza fisica che lo avrebbe condotto ad una fine prematura.

L’aula di Tribunale si forma in maniera atipica: ridotta a sbarre orizzontali, funzionali a ricreare gli ambienti, prende davvero vita nelle toghe lunghe degli attori; è una scenografia modulare, affidata quasi del tutto alla disponibilità dello spettatore a ricreare dentro di sé le immagini mentali che fanno da sfondo a una vicenda ricostruita nei ricordi e nelle lettere. Il processo comincia, lo spettacolo comincia.

Nel tripudio di voci maschili che riportano le testate giornalistiche dell’epoca, si distingue una figura ricurva e minacciosa, una sorta di atti_osceniLeprechaun dalla voce stridula e dal bastone facile: è il “marchese scarlatto”, lord di Queensberry, padre di Alfred Douglas, quel “Bosie” a cui Wilde fece da mentore e amante, la ragione per cui cominciò una vicenda giudiziaria suicida. Douglas è un giovinetto superficiale e inconsapevole, animato da un rancore distruttivo di sé, e soprattutto degli altri, nei confronti di un padre brutale e ignorante; nel ghigno compiaciuto del ragazzo, si scorge la manipolazione sottile di un cane rabbioso ricoperto di orpelli.

Nella melma di una vicenda grottesca, giustificata dal codice penale elisabettiano che giudica la “sodomia” come il più grave di tutti i reati, si erge la figura imponente ma aggraziata di Giovanni Franzosi, agghindato alla maniera irriverente del dandy. Ostenta, durante il primo processo, una sicumera stentorea e un po’ fasulla, forse nel tentativo di amplificare il rumore dello sconforto delle ultime fasi della vicenda; con l’ingresso dell’imputato, però,  si avvia una dialettica che trascende i confini dello scontro tra arringhe per dare corpo a una titanica lotta tra due modi di intendere la Vita e, nell’ottica del pensiero di Wilde, l’Arte, in quanto Vita vera e pienamente compresa. In questo Wilde troppo sopra le righe, un po’ parodico nel deformare l’accento e i toni del parlato, palpita la Letteratura, che fa dell’immoralità un mito e della bruttezza un peccato.  Si susseguono – in una raccolta che rischia di banalizzare le summae wildiane sull’Arte, cioè “Il critico come artista” e “La decadenza della menzogna”- una serie di aforismi, declamati da un Franzosi compiaciuto e derisorio di chi, nell’altro schieramento, rinnova l’invito a “lasciar perdere l’Arte” in quanto covo di corruzione.

E’ un dialogo mancato questo, perché non c’è speranza di comunicabilità quando nell’alterco le parti sono sorde ai motivi dell’altra. Sulla scia del primo processo, il secondo esibisce personaggi pressoché immutati: Bosie con furia infantile gioca le carte per una vendetta personale, il marchese brandisce il bastone come fosse spada prima e poi pistola, e Wilde, impudico e ostinato, e contrariamente ai consigli di amici come G. B. Shaw, persegue con minuziosa indolenza un progetto di autodistruzione. Nonostante i frustranti tentativi di oltraggiare sé stesso, negando la propria natura di omosessuale davanti a una giuria atterrita dal dorato paganesimo che macchia Londra, il sommo sacerdote dei decadenti verrà infine accusato di “Atti osceni”, e sprofonderà in una resistenza passiva.

Ed è in questo istante che Ferdinando Bruni e Francesco Forgia mostrano una sensibilità intrisa di rispetto: con una delicatezza quasi commovente, non tralasciano e anzi cantano la devozione incondizionata con cui Wilde continuò a difendere il suo protetto, fino a non curarsi del proprio destino e, soprattutto, delle proprie sorti di artista renitente al compromesso. A chiusura del primo atto, l’ombra demoniaca dell’incomprensione aleggia sul drammaturgo, boccheggiante in una solitudine inconfessabile.

Una conclusione così efficace corre però il rischio di alimentare speranze nuove: giocato sulla solennità dei martelli battuti sul legno della Giustizia o sui tavoli delle aste, il secondo atto è una danza di sciacalli e valletti che sono delle “drag queen” ante litteram. L’ottusa gaiezza di Bosie offende, mentre Wilde diventa l’“invertito”, esposto alla mercé del puritanesimo e di una Corte che esige la menzogna, paga di un malcelato disgusto per le tentazioni a cui cede essa stessa.

Untitled11072017152004Il meccanismo della pseudo-finzione è però insufficiente a soddisfare le promesse di dinamismo: sebbene l’espediente del processo e dei rimandi temporali funzionino nel fare del pubblico in sala una giuria in carne ed ossa, la ricostruzione dettagliata delle fonti, degli atti, dei nomi, delle accuse, pur rivelando uno zelo che va riconosciuto a Moisés Kaufman, è alla fine troppo faticosa. Lo spettacolo non può reggersi soltanto sul dettaglio giudiziario perché questo soffre dell’assenza del dramma, del movimento, aggravato dalla staticità dei luoghi e delle figure; i registi tentano di rompere lo stallo ricreando degli attimi fugaci di vita vera, cioè fuori dall’Aula, e lasciando intervenire con brillante varietà le voci dal coro, ma non è sufficiente. Ciò che rimane è Wilde il processato, e degli appelli troppo accorati che rasentano il discorso politico. Non si vede più l’Uomo, ancora meno l’Artista.

Per queste ragioni, non si può prescindere dalla dimensione intima ed emotiva del saggista e drammaturgo, che i registi sembrano conoscere ed apprezzare pur mantenendola in sordina. Quest’operazione non può funzionare anche perché una trasposizione fedele del testo non si sottrae all’accusa di anacronismo: non si parla di lotta per i diritti, in sé fonte inesauribile di stimolo, ma di una dimensione passatista che a fatica attecchisce nella realtà sociale come la conosciamo noi, come abbiamo la fortuna di conoscerla noi, anzi. Se ciò che cerchiamo a Teatro è un appello che risuoni nelle coscienze, una connessione sottile ma dirompente tra il detto e l’esperito, allora “Atti Osceni” deve tralasciare la condanna per guardare a quell’“amore che non osa dire il suo nome”, al permesso di dire sempre la Verità più intima, di difendere l’Amore sensuale e quello generoso anche nella “casa del Giudizio”, poesia in prosa che dà voce al vero talento wildiano: raccontarci l’humanitas che abbiamo dimenticato.

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