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Venerdì profano #8 – The good, the bad & th wife: il gomblotto (quello vero)

Negli Stati Uniti la corsa più pazza del mondo sta per volgere al suo termine, mancano pochi mesi, il traguardo è fissato a novembre: i candidati sono ai blocchi di partenza, dopo la maratona delle primarie, si fa largo agli sprinter, ai candidati ufficiali alla Presidenza.

Ma se a Cleveland, città in cui si è tenuta la Convention repubblicana, tutto non poteva che filare liscio come l’olio (quando Trump è certezza, d’altronde); a Philadelphia, “città dell’amore fraterno” e sede dell’annuale Convention democratica, il menù prevedeva colpi di scena degni dei migliori pranzi tra parenti, che pur non vedendosi per tutto l’anno decidono di riunirsi intorno ad un tavolo, finendo inevitabilmente per mangiarsi l’un con l’altro.

Per il “Mr. 20 miliardi” (secondo lui, per Bloomberg sono 5, per la questura pochi spicci) di New York nessuna sorpresa: Donald Trump è il candidato repubblicano alla Presidenza degli Stati Uniti.

Nulla hanno potuto i suoi temibili rivali: Ted Cruz, che bene aveva impressionato gli elettori scaldando del bacon attorno alla canna di un fucile, aiutandosi con della stagnola, evidente sintomo di dipendenza da “Machine-gun bacon“, (s’immagina da mangiare sulla riva del fiume aspettando il cadavere dei propri e innumerevoli nemici); Marco Rubio, cubano, dunque perfetto capro espiatorio per la campagna (anche interna al partito) del miliardario di NY; e Jeb Bush, il figlio di George W. Bush, che, appunto, è “il figlio di George W. Bush” (quest’ultimo, per altro, è sempre sul pezzo, festaiolo, come ben hanno dimostrato i suoi gioiosi e scherzosi passi di danza alla commemorazione per le vittime di Dallas).

Degno di nota anche il discorso della moglie di Trump, Melania Knauss, che ha parlato delle loro giovani figlie, Sasha e Vanessa, e del ruolo di moglie del primo candidato di colore alla Presidenza degli Stati Uniti.

Self-cntrl. C e V.

Phila, invece, ha ospitato l’ascesa di Hillary Clinton, la prima candidata alla presidenza degli Stati Uniti nella storia.

L’ospite più atteso, quello per cui v’era più trepidazione, tuttavia, era un altro: l’elefante al centro della stanza.

In settimana, infatti, Wikileaks ha pubblicato più di ventimila mail nelle quali si provava come il quadro dirigente del Partito Democratico US avesse sabotato la campagna elettorale di Bernie Sanders, outsider, principale rivale di Hillary nella corsa alla nomination democratica.

Prima della convention, l’anziano Senatore del Vermont aveva chiesto la testa (politicamente parlando) dei vertici del Partito. In risposta, la Clinton aveva parlato di «hacker russi»: com’è noto d’informatica se ne intende.

Il pachiderma politico è stato schivato grazie all’equilibrio (sopra la follia) di Sanders, a cui va il merito innegabile di aver riportato (e portato) al voto milioni di persone, soprattutto tra i giovani e tra i membri della middle-class americana – quella vera. D’altronde, «la democrazia è anche questo». Amen.

Impeccabile, come sempre, Michelle Obama (che in questi otto anni, a tratti, ha presieduto quasi più del marito): un discorso molto toccante il suo. Mentre all’ex Presidente Bill, appunto, l’unica cosa che gli era stata chiesta per la giornata era proprio di non esserlo, toccante.

La cerimonia si è chiusa con l’intervento di Barack Obama ed il suo endorsment a Hillary: «Non c’è mai stato nessun uomo o donna preparati quanto lei a fare il Presidente».

Anche se forse la verità è che nessun candidato è mai sembrato tanto poco appropriato quanto Trump – che, nonostante le dichiarazioni a effetto, le gaffe e il parrucco, rimane comunque in testa ai sondaggi.

I due candidati sono ai blocchi di partenza, appaiati, chi scegliere? La donna che finge di non conoscere il contenuto di ventimila mail? Oppure l’uomo che chiede ai russi di ritrovarle?

Hillary Clinton o Donald Trump?

Attenzione, perché la democrazia americana ha il margine di errore di un vero-falso.

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