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La comunità LGBTQ+ in Ungheria, tra ipocrisia e dura realtà

Su qualsiasi manuale di gender studies, la branca dell’antropologia che si occupa di sessualità e identità di genere, si legge che il sesso corrisponde agli attributi sessuali  alla nascita della persona, mentre il genere è costituito dall’insieme di aspetti culturali legati al sesso. Secondo il Parlamento ungherese, invece, sesso e genere sarebbero la stessa cosa: il 15 dicembre 2020, un emendamento alla Costituzione ha vietato il cambio di sesso, in virtù del fatto che “il genere di una persona è stabilito alla nascita e non modificabile”. Inoltre, nello stesso emendamento si vietano le adozioni da parte di coppie gay e si stabilisce che, a livello di istruzione nazionale, i temi di educazione sessuale dovranno essere trattati secondo i valori cristiani.

Come sostenuto da Amnesty International, questo emendamento è solo l’ultimo di una serie di attacchi alla comunità LGBTQ+ ungherese. Lo scorso maggio era stato vietato il riconoscimento legale dell’identità di genere delle persone trangender (in realtà, già da tre anni erano state sospese le richieste di cambio di genere). All’anagrafe i cittadini ungheresi avranno sempre e solo il sesso dato alla nascita; ciò significa che tutti coloro che avevano già concluso o iniziato il percorso di transizione non potranno vedersi riconosciuti nei propri documenti ufficiali. Con la nuova legge, si vieta in toto il cambiamento di sesso.

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Un gay pride a Budapest, nel 2019 (foto via Kafkadesk)

Altre discriminazioni sistematiche del sistema legale ungherese riguardano gli omosessuali: una persona gay non può donare il sangue a meno che non sia passato un anno dall’ultimo rapporto sessuale, non può sposare il partner né ricorrere a maternità surrogata. Con l’emendamento dello scorso 15 dicembre inoltre, viene esclusa ogni possibilità di adozione da parte di coppie omosessuali, che prima potevano, seppur macchinosamente, beneficiarne come persone “single”.

L’ultima protesta popolare risale al luglio scorso, quando migliaia di persone si erano radunate a Budapest in favore della libertà di stampa.
Il fatto che una legge transfobica e omofobica non susciti particolare risentimento, se non da parte della minoranza direttamente colpita, è indicativo di un’opinione pubblica o sostanzialmente d’accordo, o impossibilitata a manifestare dissenso. Senz’altro le condizioni di pandemia attuali e la deriva autoritaria del governo di Orbán possono aver frenato tentativi di protesta, ma anche la posizione di pensiero assunta dai cittadini è molto particolare. Se si analizzano i sondaggi degli ultimi anni infatti, quando si tratta di diritti civili emerge nell’opinione pubblica una certa contraddittorietà, la stessa che caratterizza anche l’approccio politico alla questione LGBTQ+.

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Una pubblicità della Coca-Cola comparsa a Budapest nel 2019: provocò una tempesta mediatica e un invito al boicottaggio della Coca-Cola da parte del partito di Orban (foto via Reuters)

Secondo quanto rilevato dal Pew Research Center, nel 2017 solo il 27% degli ungheresi si riteneva favorevole al matrimonio egualitario; tuttavia nello stesso anno, da un’indagine condotta da ILGA (International Lesbian Gay Trans and Intersexual Association) emergeva che il 64% degli ungheresi si diceva concorde all’idea che le persone omosessuali, transgender e bisex dovessero avere gli stessi diritti di quelle eterosessuali, e che dovessero essere protette da discriminazioni.
Interpretando i dati, si può ipotizzare che i cittadini siano più propensi all’accettazione dei diritti civili universali più dal lato teorico che quello pratico.

Anche le politiche che riguardano la famiglia e la legalizzazione dell’identità di genere seguono la stessa incongruenza: l’omosessualità è considerata legale, le discriminazioni sulla base dell’orientamento sessuale e del sesso sono vietate in tutto il Paese. Ciononostante, il Parlamento ha vietato il cambio di sesso e l’adozione per le coppie gay, così come il riconoscimento legale delle persone transgender. Sono ammesse le unioni civili, ma non i matrimoni egualitari. Insomma, c’è una grande differenza tra uguaglianza idealmente condivisa e quella effettivamente garantita dalla legge.
In generale, tale ipocrisia culturale è anche frutto della trasformazione che l’Ungheria ha subito nella storia recente. Il regime comunista ha segnato profondamente il Paese, che solo negli anni Novanta si è avvicinato a un modello economico-sociale occidentale. Nello stesso periodo si stava affermando una figura politica decisiva per il futuro della nazione: Viktor Orbán, leader del partito di estrema destra Fidesz.        

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Viktor Orbán all’inizio del 2020 (foto via AP)

La transizione democratica non è stata accompagnata da un’apertura culturale, Il trauma nazionale lasciato dall’occupazione da parte di potenze straniere ha portato a una diffusione massiccia del conservatorismo ungherese, di cui ha beneficiato il partito di Orbán, salito al potere nel 2010.
Da quel momento si è instaurata una democrazia illiberale, cioè una forma impropria di democrazia in cui ci sono elezioni popolari, ma il resto dei diritti e delle libertà civili è fortemente condizionato dalle decisioni del governo. Dal 2010 l’Ungheria ha preso una deriva autoritaria apparentemente incontrastata, o almeno non efficacemente arginata, dall’Unione Europea. La narrazione di un Paese dalla forte identità nazionale, ispirata ai principi del cattolicesimo, ha fornito una giustificazione ideologica alle politiche repressive di Orbán, come la creazione di tribunali speciali per chi manifesta contro il governo, il controllo dei media e la neutralizzazione delle forze d’opposizione. Ciò ha contribuito a un lento deperimento della democrazia e della libertà dei cittadini ungheresi, specialmente quelle delle minoranze, come immigrati e persone LGBTQ+.
In definitiva, Orbán ha estremizzato le conseguenze del trauma di una nazione storicamente oppressa, che si rifugia nella sua facciata cattolica e conservatrice per nascondere le proprie contraddizioni interne.

Il caso di József Szájer è l’emblema di questa ipocrisia immanente della società ungherese: a dicembre l’europarlamentare più importante del partito Fidesz ha ammesso di aver partecipato a un’orgia gay durante il periodo di lockdown nazionale mentre si trovava a Bruxelles, ed è stato arrestato per possesso di droga. Negli anni precedenti, però, ha contribuito con il suo partito a togliere diritti civili alle persone omosessuali, in virtù della morale cattolica.

Un murales che raffigura l’ex europarlamentare József Szájer come nuova icona gay, a Roma (foto via Reddit)

Quel che è peggio di questo quadro culturale e istituzionale è che a risentirne non è la facciata perbenista del Paese, ma le persone comuni, a cui viene propinato un modello di vita socialmente desiderabile da cui derivano pressioni psicologiche non indifferenti. Come si possono sentire persone gay, lesbiche, bisex, o qualsiasi altro membro della comunità LGBTQ+  a guardare un programma della TV nazionale che per quarantacinque minuti di fila promuove la terapia di riorientamento sessuale contro l’attività della “gay lobby”? Questo succedeva nel febbraio 2019, in occasione della conferenza sui diritti della comunità LGBTQ+ a Budapest.
Sicuramente tali politiche provocano un’incalcolabile sofferenza in tutti coloro che si vedono devianti rispetto alla norma sociale (e date le circostanze, anche legale) condivisa. Che poi essi siano fuorilegge tanto quanto chi quelle leggi le ha scritte, è un’altra storia.

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