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Fiori e spine delle primavere arabe. Dieci anni dopo

Un vaso di terracotta rotto contenente un fiore bianco che timidamente spunta dal terreno, ma con dei petali rovinati e mangiucchiati, e spine appuntite. In alto la didascalia: “Lunga vita al gelsomino”. E ancora, il ramo di un gelsomino calpestato da un anfibio militare, impolverato e con tanto di ragnatela. È con queste illustrazioni che il disegnatore e fumettista giordano-palestinese Emad Hajjaj ha deciso di commemorare in questi giorni il decimo anniversario dello scoppio delle primavere arabe, il cui evento scatenante ebbe luogo il 17 dicembre 2010 in Tunisia. Ed è proprio alla Tunisia che le vignette di Hajjaj si ispirano, con quel fiore bianco che altro non è se non il tanto decantato gelsomino della “primavera” tunisina. Mentre quella calzatura militare rappresenta il simbolo del potere che l’esercito ha ottenuto dopo la rivoluzione in diversi dei paesi coinvolti, a testimonianza della situazione politica in cui versano attualmente.

Le due illustrazioni di Emad Hajjaj (dal profilo Instagram dell’artista: @hajjaj_cartoons)

Ma riavvolgiamo il nastro per ricordare cosa accadde, in quell’ormai lontano inverno del 2010, nel paese nordafricano durante la giornata ricordata come l’inizio ufficiale dei moti d’insurrezione che coinvolsero fino all’inizio del 2012 il Nord Africa e il Medio Oriente. Il 17 dicembre di dieci anni fa, nella città tunisina di Sidi Bouzid, un venditore ambulante, il 27enne Mohammed Bouazizi, si diede fuoco immolandosi per protestare contro i maltrattamenti subiti da parte delle forze dell’ordine. Il commerciante, infatti, da diversi anni vendeva la propria merce per strada e in più occasioni era stato importunato dalla polizia che, quel 17 dicembre, gli sequestrò per l’ennesima volta carretto e bilance buttandogli a terra frutta e verdura, insultandolo e sostenendo che non possedesse la licenza per poter esercitare il suo mestiere. Non avendo sufficiente denaro per poter pagare una tangente, Bouazizi lasciò che gli portassero via tutto: dopodiché si diresse all’ufficio del governatore, al quale chiese un’udienza minacciando di darsi fuoco. Non avendo ottenuto il colloquio, acquistò della benzina, si cosparse di carburante e con un fiammifero appiccò le fiamme. Morì diciotto giorni dopo per le ustioni riportate. Questo evento diede inizio in Tunisia alla rivoluzione cosiddetta “dei gelsomini”, il fiore simbolo di pace nel mondo arabo. L’evento non ebbe risonanza solo nel paese, bensì anche all’esterno: da quel momento in poi si verificò una vera e propria reazione a catena in cui fattori che già da tempo fomentavano instabilità su tutti i piani, dal Maghreb (l’area geografica più a ovest del Nord Africa) al Mashreq (termine che indica l’insieme dei paesi arabi a est del Cairo), diventarono miccia per la rivolta.

A ogni paese la sua rivoluzione

Se in ordine cronologico la prima thawra (rivoluzione) scoppiata al grido di “al-shaʿb yurid isqat al-nizam” (il popolo vuole la caduta del regime) fu quella tunisina, non passò molto tempo perché anche gli altri paesi imboccassero la stessa strada. Dal Marocco al Bahrein, passando per l’Algeria, l’Egitto, la Libia, la Siria, la Giordania, lo Yemen, e con conseguenze minori, anche per altri paesi dell’area, la popolazione si sollevò. Si opponeva a decenni di governi ingiusti (spesso appropriatisi del potere con colpi di stato militari), autoritari e corrotti; di recessioni e crisi economiche causate dal clientelismo imperante laddove si doveva mantenere al potere a lungo lo stesso presidente (Hosni Mubarak in Egitto governava dal 1981, Zine al-Abidine Ben Ali in Tunisia dal 1987, Mu’ammar Gheddafi in Libia dal 1969, Abdelaziz Bouteflika in Algeria dal 1999 fu estromesso solo nel 2019).

Manifestanti in piazza Tahrir in Egitto (foto di Pedro Ugarte per AFP)

Regimi di questo tipo si basavano su una forte collaborazione con le forze dell’ordine e con tutto l’apparato della giustizia: la polizia e l’esercito rivestivano e rivestono tuttora un ruolo di controllo e sicurezza che ne fa un’arma vera e propria a disposizione dello stato in diversi di questi paesi. La repressione e la violenza esercitate dai poliziotti con arresti arbitrari, torture e uccisioni furono, ad esempio, tra le principali ragioni che portarono allo scoppio della rivoluzione in Egitto il 25 gennaio del 2011. Così come lo fu il trattamento riservato alle minoranze e a particolari gruppi sociali che richiedevano l’indipendenza dal potere centrale, come nel caso del Marocco e della popolazione sharawi nel Sahara Occidentale. Le proteste furono in parte di impronta pacifista, in parte anche piuttosto violente, e senza dubbio, sia in un caso che nell’altro, furono represse con ferocia dalle forze di sicurezza. All’interno della cornice degli scontri, delle adunate di piazza a cui parteciparono in ciascun paese migliaia, milioni di manifestanti, avvenne però una rivoluzione ulteriore, una rivolta nella rivolta: quella artistica.

A ogni rivoluzione il suo “fiore”

Le primavere arabe diedero alla luce dei fiori sfrontatamente belli e forti, opere d’arte che accompagnarono le rivoluzioni con la loro originalità e la loro potenza, tanto estetica quanto profondamente politica. Dalla musica, all’arte figurativa con graffiti, murales, dipinti, fumetti, alla letteratura, sia con la narrativa che con la poesia, la generazione di artisti delle rivoluzioni diede vita a un vero e unico patrimonio artistico e culturale. A farla da padroni la street art e tutto il mondo underground: sono stati gli anni dei graffiti, del rap, del metal e del rock schieratamente politici, dell’indie. Generi musicali e artistici fino a quel momento bistrattati e nascosti a causa delle restrizioni dei governi in materia di arte e cultura. In Egitto il cantautore folk rock Ramy Essam si adoperava per cacciare il presidente a colpi di chitarra con la sua Irhal (Vattene) sostenuto da una folla di migliaia di manifestanti in piazza Tahrir, mentre in Tunisia è stato il rapper El Général che tra un beat e l’altro ha attaccato il governo di Ben Ali con la sua Rais Lebled (Presidente del paese). In Siria il poeta Aboud Saeed ha utilizzato la sua pagina Facebook per raccontare in versi e sotto forma di post ciò che accadeva durante le giornate di quella rivoluzione poi sfociata in una guerra civile. L’artista Murad Subay ha lanciato invece in Yemen la campagna “Colora i muri della tua città” e ha affrescato, insieme a chiunque lo desiderasse, i muri della capitale, Sanʿaʾ, tingendoli di colori vivacissimi in segno di protesta contro il deterioramento urbano causato dal disinteresse del governo.

Un’opera di Murad Subay a Sana’a, capitale dello Yemen (foto di Murad Subay)

Anche in Egitto l’arte figurativa ha avuto, insieme alla musica, una vera e propria esplosione grazie ad artisti come Ganzeer e Ammar Abo Bakr che hanno celebrato, tra i tanti, il tema della memoria raffigurando spesso i volti di chi ha perso la vita durante gli scontri. In Libia, invece, ad aver avuto la meglio sono state le caricature di Gheddafi di cui i fumettisti hanno spesso deriso i capelli sempre scompigliati e l’abbigliamento dai toni “regali”, aggiungendo alle sue raffigurazioni anche la bandiera libica che lui aveva invece ridisegnato di colore diverso (tutta verde) in linea con la sua politica del panarabismo. Un veloce excursus, questo, che ritrae solo una porzione minuscola dell’enorme produzione artistica di quel periodo, la quale ha assunto un’importanza tale da far sì che le primavere arabe fossero conosciute nel resto del mondo proprio attraverso quella che ne è stata la portata artistica.

Una delle tante caricature di Gheddafi in Libia. (Foto via AFP)

Le “spine” dell’inverno arabo

A dieci anni di distanza da quel periodo di fermento rivoluzionario, se c’è qualcosa su cui tutti gli studiosi e opinionisti esperti di quest’area geografica sono d’accordo è che le primavere arabe non si sono mai concluse, ma sono state addirittura seguite da un “autunno” e da un “inverno”, cioè anni di continui tumulti dopo la presa di potere di regimi ancora una volta autoritari e repressivi. A parte poche eccezioni come la Tunisia, dove negli ultimi anni si è instaurata una democrazia, seppur con difficoltà e ancora con tanti problemi da risolvere, nella restante maggioranza dei paesi, senza contare quelli in cui non è cambiato assolutamente nulla, i nuovi governi si sono dimostrati simili ai precedenti o anche peggiori.

L’esempio eclatante è l’Egitto dove già nel 2011, con il governo di transizione dell’esercito, il potere era tornato nelle mani di una stretta minoranza che, si capiva, non lo avrebbe ceduto facilmente. Oggi, a distanza di dieci anni, il presidente Abdel Fattah al-Sisi, diventato leader con l’ennesimo colpo di stato nel 2013, attraverso un referendum ha ottenuto sconfinati poteri fino al 2030. Negli ultimi due anni abbiamo assistito a nuove insurrezioni, con dimensioni e un impatto globalmente inferiori rispetto a quelli del 2011, ma ugualmente significative: in Algeria il movimento pacifico del Hirak ha portato nel 2019 alla fine del regime, in Libano la rivoluzione è scoppiata nell’ottobre 2019 e, nonostante la massiccia partecipazione della popolazione su ampia scala, non è riuscita a sottrarre la poltrona all’ormai mal tollerata classe dirigente. In Sudan, l’11 aprile 2019 si è vista la deposizione del presidente Omar al-Bashir, al potere dall’89, dopo quattro mesi di proteste.

Murales dedicato alla rivoluzione sudanese che ritrae Alaa, la giovane diventata simbolo delle proteste del 2019 (foto via AP)

La strada da percorrere perché la popolazione di questi paesi ottenga ciò che chiede da anni (governi democraticamente eletti, una gestione equilibrata del potere, la distribuzione eguale delle ricchezze, il sostegno alle classi più disagiate, la fine degli abusi delle forze dell’ordine, nuove leggi che tutelino diritti civili e libertà dei cittadini) sarà lunga e irta di ostacoli difficilmente sormontabili. Soprattutto se esiste un’innegabile connivenza e cecità di altri stati, anche esterni a quest’area geografica, che continuano a fingersi inconsapevoli di ciò che qui avviene pur di poter proseguire indisturbati nel realizzare i propri interessi. A volte la possibilità che tutto ciò avvenga risulta pura utopia. Qualcosa, però, in questi dieci anni è cambiato davvero: la consapevolezza delle persone, che non stanno più in silenzio. A costo di rischiare la propria vita, non tollerano più. E allora scendono in piazza a gridare ciò che desiderano e ciò che detestano, compongono canzoni e le fanno ascoltare, dipingono muri e colorano strade, scrivono poesie e le recitano pubblicamente. Chiedono diritti e non si nascondono aspettando nascoste che qualcosa cambi. Forse di qui a poco tempo sentiremo parlare di nuove rivoluzioni, già il terreno è fertile e forse una nuova primavera lo farà fiorire un’altra volta. Intanto a noi non resta che continuare a parlarne, per diffondere le voci di chi cerca disperatamente di farsi ascoltare.

(La foto in copertina è di Tara Todras – Whitehill per AP)

Claudia Agrestino

Sono iscritta a Studi dell'Africa e dell'Asia all'Università di Pavia. Amo viaggiare e scrivere di Africa, Medioriente, musica. Il mio mantra: "Dove finiscono le storie che nessuno racconta?"

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