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“Un divano a Tunisi”: spaccato “psicanalitico” della società tunisina post 2011

Le strade piene/ La folla intorno a me/ Mi parla e ride/ E nulla sa di te/
Io vedo intorno a me chi passa e va/ Ma so che la città/ Vuota mi sembrerà/ Se non torni tu

Una scena che si apre con la voce e le parole di Mina in Città vuota (1963), e quei colori caldi un po’ saturi che quando li vedi ti ricordano le estati afose di quelle cittadine mediterranee senza tempo, dove sembra sempre fine agosto e sempre gli anni ‘60. Ti senti subito lì, come piombato all’improvviso in un’affollata, caotica città nordafricana. Il trambusto dei caseggiati famigliari dove ci si chiama gridando da un piano all’altro, e tutti si impicciano in ogni questione. Con quelle strade in cui spostarsi è un’impresa, con quelle auto “scassone” che ti lasciano a piedi nel bel mezzo di una provinciale dispersa nel nulla e nella polvere, in compagnia di vecchie audiocassette con musica italiana vintage e di un arredamento dell’abitacolo un po’ kitsch.

Si cala perfettamente nel clima giusto fin dall’inizio lo spettatore di “Un divano a Tunisi”, primo lungometraggio della regista franco-tunisina Manele Labidi Labbé, presentato alla 76esima Mostra del Cinema di Venezia dove ha vinto il premio del pubblico, e uscito nelle sale italiane l’8 ottobre scorso.
Il film, ambientato nella Tunisia del 2011, racconta di fatto due storie: quella personale di rinascita e riscatto della protagonista, la 35enne Selma Derwich, che emigrata da Tunisi a Parigi all’età di 10 anni decide di tornare e aprire un suo studio da psicanalista e, quasi in background ma nemmeno troppo, quella di un intero paese appena uscito da una rivoluzione.

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Selma durante una delle sue sedute di psicanalisi

La narrazione si inserisce infatti nella cornice delle cosiddette primavere arabe, quella scia di tumulti che già dal 2010 aveva iniziato a investire i paesi di Nord Africa e Medioriente. Reduce da anni di politiche economiche e governi viziati, nella maggior parte dei casi dittature (più o meno dichiarate) il popolo è insorto, dal Maghreb al Mashreq (dalla zona più occidentale a quella più orientale della grande area definita Medioriente), dal Marocco alla Siria. I fattori all’origine di questi moti di insurrezione sono molti e sono il risultato di una serie di variabili complesse che tutte insieme hanno avuto lo stesso effetto di una miccia in una polveriera. Un passato coloniale fatto di occupazione straniera, sfruttamento, soprusi e oppressione politica, sociale, economica e culturale; governi quasi mai eletti democraticamente e fondati su sistemi corrotti, dispotici, clientelari e in gran parte repressivi. Una diseguaglianza nella distribuzione delle ricchezze che ha provocato un enorme divario tra ricchissimi e poverissimi. Ulteriore fattore sociale estremamente caratteristico dei paesi in questione poi, un ribollente youth bulge, la bomba demografica, situazione che si verifica quando in una società la fascia giovanile è ampia, ma non ben assorbita dal settore lavorativo, ed esplode in modo violento e incontrollato per la necessità di trovare spazio sociale. Se non lo trovano, i giovani cercano di crearselo, questo spazio, prendendolo con forza o emigrando.
All’interno del film la vicenda personale di Selma da questo punto di vista risulta antitetica: dopo più di vent’anni vissuti in Francia a causa dell’esilio del padre, la protagonista decide di tornare, e nessuno capisce perché lo abbia fatto. Così la cugina adolescente Olfa, che sogna Londra e di diventare una ballerina famosa con un taglio di capelli alla Rihanna, la giudica una pazza, e i suoi concittadini una possibile criminale (unica ragione plausibile per cui una tunisina con passaporto francese potrebbe compiere il folle atto di tornarsene in madrepatria).

Bisogna poi tenere presente che nei paesi coinvolti dalle rivolte le modalità e le conseguenze sono state differenti. In Marocco la rivolta ha coinvolto solo alcuni segmenti della società e non ha portato al rovesciamento della monarchia, ma all’approvazione di modifiche alla costituzione; in Libia e Siria i tumulti sono sfociati in una guerra civile; in Algeria una vera svolta è arrivata solo lo scorso anno con la caduta del governo di Abdelaziz Bouteflika (in carica dal 1999) dopo mesi di proteste guidate dal movimento dell’Hirak; in Egitto la thawra (la rivoluzione) ha portato alla caduta del regime trentennale di Hosni Mubarak, ma dopo una brevissima parentesi di governo eletto più o meno democraticamente, con il colpo di stato militare del 2013 e il nuovo presidente Abdel Fattah al-Sisi, si è tornati a una situazione simile o peggiore rispetto alla precedente.
La Tunisia, invece, viene considerato un caso di primavera araba che rispetto ad altre ha avuto successo. Dopo le movimentazioni sociali, passate sotto il nome di “Rivoluzione dei Gelsomini”, a cui presero parte strati sociali differenti (dai lavoratori, agli studenti universitari, ai ceti medi) e in cui un ruolo importantissimo ebbero le donne, il governo di Zine el-Abidine Ben Ali (in carica dal 1987 in seguito a un colpo di stato) cadde. Da quel momento, nonostante il primo periodo in cui, come dopo qualunque sovvertimento politico, la caccia alle streghe per i sostenitori del vecchio regime continuava a produrre un clima di generale preoccupazione e confusione, si è cercato di muoversi lungo la strada della democrazia. Una strada lunga e tortuosa, durante la quale non si sono incontrati pochi ostacoli. All’indomani della rivoluzione, malgrado l’illusione dei tunisini, le cose non erano magicamente cambiate; occorrevano tempo e sforzi, collaborazione da parte di tutti i settori della società e di tutti gli organi statali.

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Le manifestazioni durante la rivoluzione del 2011 (Foto da Africarivista)

Così il film di Labbé ci porta in un viaggio alla scoperta delle intime speranze e paure dei tunisini, di cui veniamo a conoscenza grazie alle chiacchiere di Selma con i suoi pazienti, restii all’inizio a parlare con una “mezza straniera” che si professa tunisina ma è tatuata, non porta il velo e fuma (molto), e che per quanto ne sanno potrebbe essere stata mandata dalla polizia segreta per spiarli. Ci porta a scoprire, attraverso l’infinita trafila per l’ottenimento di una licenza, il mondo della burocrazia con impiegati della pubblica amministrazione scaldaposto e abbonati a una lentezza biblica, dalla “tangente facile” e completamente abbandonati a loro stessi. Il tutto in paradossale opposizione con la solerzia delle forze dell’ordine, incarnata dal tuttofare poliziotto Naim, che si impegnano per l’applicazione ferrea di leggi all’interno di una situazione di caos generale in cui prima di far rispettare minuziosamente inutili cavilli burocratici, delle nuove leggi sarebbero prima da creare.

Ci porta a stupirci, o forse nemmeno troppo, e spesso in modo comico e grottesco, a tratti macchiettistico, delle tante contraddizioni che convivono in una società che giudica chi non segue i precetti della religione, ma dove poi i versetti del Corano sono scritti e affissi in luoghi in cui avviene di tutto e di più, dalla birra nascosta nelle lattine delle bibite alla madre di famiglia velata che fuma, fino all’imam che cerca di ingannare i dotti della moschea con dei sotterfugi per essere elevato di ruolo. Tutto ciò che noi potremmo considerare una contraddizione e che di fatto è componente ed essenza stessa di una società che non esisterebbe proprio senza le sue contraddizioni.

Selma e la cugina Olfa, fuggita da casa sua, in auto

Oggi la Tunisia si sta barcamenando tra gli sforzi per far sopravvivere la democrazia e continui tentativi da parte di qualcuno di fare il proprio tornaconto. Così dopo che nelle elezioni del 2019 è stato nominato presidente l’apartitico giurista e docente universitario Kaïs Saïed, il quale ha formato un governo di coalizione con Primo Ministro Elyes Fakhfakh, il paese si è trovato di nuovo nel mezzo di una crisi e al centro di nuovi giochi di potere. Una mozione di sfiducia al premier mossa nell’agosto scorso da parte del partito islamico di coalizione Ennahda con motivazione “conflitto di interessi” ha riportato la Tunisia a sfasciare e ricomporre il governo ora guidato dall’ex Ministro dell’Interno Hichem Mechichi.

Un paese e una società, quindi, che cercano di andare avanti lasciandosi il passato alle spalle, nonostante continui ostacoli e difficoltà. Proprio come Selma che malvoluta, osteggiata, impaurita, scoraggiata, in realtà confessa al suo idolo Freud, immancabile nel suo ritratto appeso alla parete dell’appartamento adibito a studio, che non esiste altro posto in cui sente di voler, e poter, combattere le proprie battaglie.

Claudia Agrestino

Sono iscritta a Studi dell'Africa e dell'Asia all'Università di Pavia. Amo viaggiare e scrivere di Africa, Medioriente, musica. Il mio mantra: "Dove finiscono le storie che nessuno racconta?"

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