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Per una Thailandia democratica: riforme e attivismo delle nuove generazioni

Durante la notte di mercoledì 14 ottobre, in Thailandia è entrato in vigore un decreto d’emergenza che dovrebbe ristabilire l’ordine e la sicurezza nazionale, minacciati, a detta del governo thailandese, dalle proteste di giovani studenti che da febbraio scorso riempiono le strade della capitale Bangkok per criticare il governo e la monarchia. A partire da oggi sono limitati gli assembramenti (più di quattro persone non possono riunirsi), la libertà di stampa (vengono proibite notizie che potrebbero creare paura o fraintendimenti nell’opinione pubblica) e la libertà di movimento (ogni zona delimitata dalle autorità militari sarà inaccessibile ai civili). Ma quella che il governo addita come una minaccia all’ordine interno è in realtà una protesta moderata, che vuole riformare il proprio paese rendendolo più democratico.

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Il saluto a tre dita: dal film Hunger Games a simbolo delle proteste thailandesi (foto via Reuters)

La Thailandia giuridicamente sarebbe una monarchia parlamentare, ma di fatto dal 1932, anno in cui le è stata concessa la Costituzione, ha subito ben dodici colpi di stato che hanno instaurato delle dittature militari. L’attuale primo ministro Prayuth Chan-ocha è un generale che nel 2014 ha instaurato, con un golpe, una dittatura militare fino al 2019. A seguito di un progressivo accentramento di poteri, il generale è poi riuscito a farsi eleggere primo ministro lo scorso anno grazie a delle elezioni fortemente manipolate.

Tutt’altro che un paese democratico la Thailandia, dunque. La tradizione vuole che l’educazione di un figlio si basi sul rispetto e venerazione della monarchia. Questo spiega perché i conservatori del paese si siano schierati contro le potreste, ritenendole una malattia più grave del Covid-19. Questo indottrinamento culturale ha però anche una solida base giuridica: basti pensare che la Thailandia è uno dei pochi paesi al mondo che ancora contempla il crimine di lesa maestà. L’articolo 112 del codice penale prevede infatti la reclusione da tre a quindici anni per coloro che criticano il sovrano, anche se non viene specificato in quali casi questo articolo si debba applicare. Si tratta di una legislazione molto restrittiva, usata dalle autorità per limitare la libertà d’espressione e condannare gli oppositori politici.

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Panusaya Sithijirawattanakul mentre legge il manifesto nell’agosto 2020 (foto via GettyImages)

È proprio quello che in questi giorni sta accadendo ai giovani manifestanti: già venti sono stati arrestati nella capitale a partire da martedì. Tra questi ci sono anche i tre leader del movimento pro-democrazia: Anon Nampa, avvocato specializzato in diritti umani, Parit Chiwarak, studente attivista conosciuto anche come “Penguin”, e Panusaya Sithijirawattanakul, brillante studentessa che a soli ventun anni ha letto davanti a migliaia di studenti il manifesto della loro protesta. Le richieste sono chiare: chiedono la dimissione dell’attuale primo ministro, per un governo che sia effettivamente eletto dal popolo, un taglio del budget dei reali, una reiscrizione della costituzione e che le autorità smettano di scagliarsi contro gli oppositori governativi.

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Wanchalerm Satsaksit, l’attivista rapito il 4 giugno 2020 (foto via GettyImages)

A proposito di questo ultimo punto, ben nove degli attivisti che hanno lasciato il paese dopo l’instaurazione della dittatura sono scomparsi. È questo il caso di Wanchalearm Satsaksit, giovane autore di satire che a trentasette anni è stato rapito in Cambogia mentre era al telefono con sua sorella e di cui ora non si sa più nulla. Oltre agli scomparsi, i corpi di due critici, anche loro in esilio, sono stati ritrovati sventrati e riempiti di cemento lungo il fiume Lao. L’esercito thailandese afferma di non sapere nulla a riguardo, ma molti pensano che questi atti di violenza siano una strategia del governo per diffondere terrore presso la popolazione.
Per altri invece, questa ennesima dimostrazione di brutalità è stato un punto di non ritorno per il Paese: un volto nuovo sembra emergere da queste proteste. Un’intera generazione che pacificamente manifesta nelle strade e le anima innalzando al cielo le tre dita, saluto preso in prestito dal film Hunger Games e diventato ormai il suo simbolo.

Rose rosse tengono tra le mani questi ragazzi, metafora di bellezza e sofferenza insieme. Dolore sì, quello che certamente la giovane Panusaya sta provando in carcere. Ma non disperazione, perché nonostante una violenza assurda e ingiustificata incomba sulle loro speranze, un seme è stato gettato. Una nuova consapevolezza rende fertile un terreno che prima sembrava arido, quella di sapere che un progetto di democrazia è possibile perché c’è un’intera schiera di giovani pronta a sostenerlo. Ci vorrà del tempo, ma questa oppressione, questo ostacolo contingente non possono annullare l’esigenza di riforme, che oramai è diventata un orizzonte condiviso o meglio un dovere comune che Panusaya sente dentro di sé ora, in carcere, e le dà coraggio.

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