Concorsi

The holy ghost

Di Matilda Barone – Primo classificato al concorso letterario Di-Stanze 2020

“In chiostro”, mi fece cenno la Priora. “Facciamo una passeggiata.”
Uscimmo dal suo ufficio buio, lasciando indietro mamma e papà, i loro caffè e i loro vestiti buoni.
Strizzai gli occhi da dietro le lenti, ferita dal sole pomeridiano. Era l’inizio dell’autunno più strano della mia vita, tiepido, saturo di colore nel cielo e nelle foglie rosse a forma di lancia che lo trafiggevano senza pietà. Immaginai il moto pendolare delle suore lungo i sentierini di pietra che separavano il cortile in quattro quadranti e verso la fontana di pietra al centro, appesantito da luccicanti secchi d’acqua. “Quanta pace, finalmente”, pensai.
Percorremmo tutto il porticato del piano terra del convento senza dire una parola. Stavo attenta a mettere un piede davanti all’altro in passi piccolissimi, per far cigolare le mie scarpe nuove all’unisono con quelle della Priora in ossequio al silenzio di quel giardino. Arrivammo ai gradini consunti dello scalone che conduceva al mezzanino. A metà, la Priora si fermò a riprendere fiato attaccata al corrimano.
“Maria Cristina, comprendi…”, ansimò.
“Comprendo.”
“Comprendi”, riprese, “che il mio dovere, in questa situazione, in quanto Priora, e in quanto, come si suol dire, congiunta…”. Perse il filo, nascondendo un sorriso fra le pieghe del velo. “Vorrei mostrarti come sono le stanze, e fare quattro chiacchiere con te sola. La vita qui, sai, è probabilmente diversa da come immagini.”
Riprendemmo a camminare. Una volta in cima, mi indicò una fila di porte di legno identiche e mi fece cenno di aprirne la terza.
“Quella è ancora vuota. Potresti abitarci tu, un giorno.”
Aprii la porta, con la Priora alle mie spalle.
Col senno di poi, cosa mai mi aspettavo dalla stanza di una carmelitana scalza? Quattro pareti imbiancate a calce, un letto, un armadio, una scrivania, una sedia, un termosifone, un grosso crocifisso dall’aria preoccupata. Alcuni trovano pace, nella penombra di una stanza, con la sola compagnia del pulviscolo che entra nel quadrato di luce fredda e pallida della finestra. Io, però, mi aggirai due o tre volte per la stanza sotto lo sguardo della Priora, prima per educazione, per farle vedere che l’apprezzavo, poi inquieta, come se avessi dovuto trovarvici qualcosa. Ecco un elenco completo di quanto vi trovai: quattro pareti imbiancate a calce. Un letto. Un armadio. Una scrivania, una sedia. Un termosifone. Un grosso crocifisso dall’aria preoccupata.
Mi sentii impallidire, quindi chiesi, “Posso sedermi?”. Mi mancava il fiato. “Sa, le scale…”, mi giustificai con una finta risata.
La Priora annuì, ferma sulla soglia. Mi lasciai cadere sul letto e spinsi giù la mascherina che mi copriva la bocca, inspirando forte.
“Come dicevo, mia cara, la vita qui è semplice, e dura. Non è da tutti, è una vocazione.”
“Ho una vocazione, madre.”
La sua voce si fece severa.
“Maria Cristina. Non vorrei pensarti in malafede. Sii chiara con me. Di che natura è la tua vocazione?”
Detestai il suono che aveva dato al mio nome – un nome al quale non mi è mai piaciuto obbedire.
“La vocazione di qualcuno che non è fatto per il mondo”, risposi con quanta meno insolenza possibile. Era una risposta sincera; era anche una risposta errata. E infatti, la replica della Priora seguiva punto per punto tutti i discorsi che avevo provato mille volte nella mia testa, durante la nostra passeggiata per il chiostro e l’incontro nel suo ufficio, nel tragitto in macchina verso il convento, nelle settimane che avevano preceduto
la mia visita.
“Questo è un errore di percezione, però; il convento non è una fuga…”
“Fuga dal mondo, ma opera intensamente nel mondo. Dall’interno. Con la preghiera. Lo so.”, la interruppi.
“Allora, perché dici così? Pensa anche alla tua fede. Sei sicura che questo, davvero, sia il posto dove esprimerla? Forse, con un gruppo di tuoi coetanei, una guida spirituale…”
“Oh no!”
L’avevo detto a voce troppo alta. Mi ricomposi.
“Mi scusi – no, madre. Nella vita laica non riesco a dedicarmi all’adorazione eucaristica come vorrei. Questo intendevo quando dicevo che non sono fatta per il mondo.”
La Priora mi fece cenno di rimettermi la mascherina e le obbedii. Chiuse la porta alle sue spalle e si sedette alla scrivania, facendo dondolare un poco la sedia. Mi guardò sorridendo con gli occhietti piccini.
“Atea?”
“Agnostica”, risposi, arrossendo. “Io… scusi il disturbo… Sono mortificata…”
Scosse la testa, divertita.
“Non ti sentire in colpa! Tante giovani donne hanno chiesto di entrare qui, dalla fine dell’isolamento. Tre o quattro non erano neanche battezzate! La Parola di Dio, suppongo, ha molti modi di raggiungere i cuori.
Fatto sta, su una trentina che hanno fatto domanda, finora ne abbiamo ammesse due. Io però sono sempre curiosa di sapere perché mai vi venga in mente proprio il convento. Perché un convento, cara, e non un paese fantasma dell’Appennino, o un faro irlandese? Quando ero giovane io c’erano le comuni; ci saranno ancora, immagino.”
“Sono ragioni… culturali, madre.”
“Culturali?”, mi chiese, per la prima volta sorpresa da una mia risposta.
“La donna indesiderata che si rifugia in convento, è un topos…”
“Entreresti in convento per via di un topos? Maria Cristina! Mi pare, scusa se te lo dico, un po’ sconsiderato da parte tua”, mi rimproverò.
Balbettai, cercando di non rendermi ancora più ridicola: “Non per via di, mi devo essere spiegata male. In imitazione, agiografica direi, di figure femminili sia storiche che letterarie. Ma è qualcosa che sento da sempre,
sa; io non appartengo a questo secolo, madre. In quanto luogo, ma soprattutto in quanto tempo. È volgare, è meschino. Sospetto non esistano né amore né accoglienza, al di fuori della letteratura e di queste pareti.”
“Comprendo. Un amore finito male, eh?”
Comprendeva.
“Sì, possiamo chiamarlo così.”
Sentii che sospirava, non capii se con impazienza o compassione. Si voltò verso la finestra. Per un momento pensai di cambiare argomento e invitarla ad uscire, ma tornò a guardare me e continuò:
“Questo virus ha avuto un grande impatto su voi giovani. E non è l’unico dei mali dei nostri tempi che dovete
navigare da soli. Non avete punti di riferimento, in questo mondo caotico, sempre più lontano dalla luce
divina, governato da logiche di profitto. Forse non dovrebbe stupirmi che tanti animi sensibili, quali il tuo, cerchino rifugio nei valori assoluti che nessuno vi ha insegnato ad abbracciare. E non dovrei rimproverarvi
se lo fate a modo vostro; ossia volendo tutto, e subito.”
Aveva pronunciato la mia sentenza. Si alzò e la seguii fuori dalla stanza, giù per la scalinata. Notai che il suo passo si era fatto più energico; aveva evidentemente voglia di tornare al suo ufficio e terminare la conversazione. Raggiunsi i miei genitori e mi congedò:
“Ti ricorderò nelle mie preghiere, Maria Cristina. Spero tu trovi presto ciò che desideri. E, quando vuoi, la
nostra foresteria, per te, è sempre aperta.” Ci salutò con la mano e chiuse la porta alle sue spalle.
Io e i miei genitori ci dirigemmo in silenzio verso il parcheggio, attraverso il giardino. Provavo la conosciuta vergogna dell’amante respinta, a percorrere quel chiostro a cui non appartenevo: sentivo di averlo addirittura profanato col mio goffo desiderio. Procedetti a testa bassa, sotto le sferzate della sua bellezza serena e le crudeli risa dei merli, finché non vidi l’asfalto sotto i piedi.
Non ho ancora trovato ciò che desidero, madre.
Ciò che desidero si trova nelle lunghe notti di quarantena spese nella penombra della mia stanza a fissare l’immagine del volto di qualcuno di incantevole in un quadrato di luce fredda e pallida, a rileggere ogni parola
che mi ha lasciata scritta, attendendo la beatitudine di una nuova risposta che, mi è chiaro, non arriverà mai.
Però quando abbiamo fatto match ha iniziato lui a scrivere, vorrà pur dire qualcosa.
Ciò che desidero non è qualcosa, è qualcuno, ed è alto biondo con gli occhi grigi; purtroppo, di lui non so molto altro.
Ciò che desidero è Gabriele, 28, ed è solo a un chilometro e mezzo di distanza.

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