Attualità

Abbattere le statue non significa cancellare la Storia

Al sorgere periodico di una nuova polemica internazionale, l’Italia puntualmente si scopre mirabilmente sprovvista sul versante dialettico, ovvero l’argomentazione del pensiero. In particolare, permane un problema con l’arbitrarietà delle implicazioni, che possiamo riassumere nell’espressione discorsiva “se succede x allora seguirà y” o ancora “se facciamo x allora è come se y”. La fallacia di simili argomentazioni, in filosofia nota come fallacia del pendio scivoloso o della brutta china, si basa sull’assunto che un dato evento o una data azione debba provocare per forza un effetto domino inarrestabile che il più delle volte porterebbe a esiti catastrofici per lo status quo. È una paura, questa, che magari è motivata anche da qualche precedente storico (comunque sempre più raro di quanto si pensi) ma che non può riassumere la complessità della stragrande maggioranza dei processi umani collettivi. Succede in questi giorni che in America e in Europa siano prese d’assalto le statue di figure storiche, da Colombo a Churchill fino a Montanelli solo per citare le più eclatanti, le quali oggigiorno ci appaiono, per i motivi più disparati, controverse. E succede che i “difensori della storia” si schierino a difesa delle sacre reliquie perché, a loro dire, all’abbattimento delle statue seguirebbe un repentino abbattimento e cancellazione della storia o parti di essa. Ora chiunque sostenesse questa linea di pensiero o ha un problema con la dialettica, come abbiamo detto sopra, oppure è in malafede quando non addirittura dal lato sbagliato della storia. Fermiamoci al dimostrabile ed escludiamo la malafede.

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L’idea che un singolo evento sia paragonabile a una tessera di un domino che fa cadere tutte le successive è una tecnica narrativa molto efficace. Ma la storia e le organizzazioni sociali e politiche sono sistemi complessi che mal sopportano le semplificazioni.

Prendiamo i casi di questi giorni e anzi prendiamo proprio il caso di Cristoforo Colombo, figura tanto cara alla nostra memoria italica collettiva. Il copione è sempre lo stesso: statue di Colombo abbattute, indignazione generale dei benpensanti e l’italiano – direi quello medio ma non solo quello medio – che difende la memoria del Colombo nazionale. Nessuno però che si chieda perché in America i manifestanti sentano il bisogno di vandalizzare la memoria di Colombo. Come ci ricorda il Post in un articolo, la popolazione indigena dei Taìno fu la prima a subire la violenza colonialista di Colombo:

Il genocidio dei Taìno cominciò con Colombo e proseguì dopo la sua morte, ma ebbe le sue basi nel trattamento riservato agli indigeni dall’esploratore genovese nelle sue spedizioni. Oltre a fare centinaia di schiavi, ordinò a tutti quelli sopra ai 14 anni di cercare oro per gli spagnoli. Per sopprimere le ribellioni dei Taìno, ordinò una repressione brutale, che comprese torture e l’esposizione pubblica di pezzi di cadaveri per spaventare la popolazione. In una lettera, raccontò l’efficacia e la convenienza economica della vendita di bambine di 9 e 10 anni come schiave sessuali. Alcuni storici credono che tantissimi Taìno si suicidarono in massa per sfuggire al controllo spagnolo e alle insostenibili richieste di oro, cotone e altre risorse.

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C’è poi un fraintendimento alla base del Columbus Day americano che spesso viene dimenticato: il 12 ottobre, infatti, è solo un pretesto per celebrare gli italiani in America e non la scoperta dell’America in sé.

Insomma, non proprio una figura di cui andare fieri a livello di memoria nazionale. Ma la memoria non è storia, esattamente come le statue non sono e non possono sostituire dei libri di storia. Proprio qui risiede la fallacia dialettica di massa: nel confondere la memoria con la storia. La memoria, ce lo spiega Alessandro Barbero, è un ricordo, individuale o collettivo, che per ovvi motivi è contaminato da un apparato emotivo personale (o narrativo, nel caso delle masse). In altre parole, il milanese e il reggino potranno odiarsi tutta la vita ma si scopriranno uniti e italicamente compatti nella difesa della memoria della figura di Colombo dagli “attacchi” di una popolazione che ha semplicemente realizzato che buona parte delle sue miserie è imputabile anche alle azioni del Colombo storico. Una difesa che il più delle volte poggia sulle seguenti risposte preconfezionate: “era la mentalità del tempo” o “bisogna capire il contesto storico”. È il caso anche di eminenti storici come Franco Cardini, il quale, intervistato a Uno Mattina, ha dichiarato che non bisogna “proiettare sul passato le idee, le posizioni e la mentalità del presente”. Come se l’antirazzismo, l’antischiavismo e altre idee sacrosante alla base dei diritti umani appartenessero soltanto all’attualità più stringente.

La goffagine di certa televisione generalista non si ferma alle dubbie dichiarazioni di storici e opinionisti. Capita anche infatti di assistere all’interno delle stesse trasmissioni a paragoni e narrazioni inquietanti, ad esempio l’11 Settembre 2001 presentato come ultimo stadio estremo della mentalità iconoclasta. Una forma, cioè, più strutturata dell’affermazione “antifa are terrorists“.

Dato che bisogna capire i contesti storici, chiediamoci se erano davvero tutti degli schiavisti, sessisti e colonialisti prima della fine della Seconda Guerra Mondiale. Prendendola alla lontana scopriremmo che tra i primi critici della schiavitù c’è addirittura un signore di nome Platone, il quale, sebbene non arrivi mai a parlare di un’abolizione effettiva, la elimina nella sua società ideale della Politeia. E non dimentichiamoci che, sempre nella sua città ideale, quasi non esistono differenze di genere, differenze che il suo discepolo Aristotele ha invece rimarcato con forza adducendo anche delle motivazioni pseudo-biologiche che non farebbero rabbrividire solo oggi, ma forse anche il suo maestro. Tacito, storico romano del primo secolo d.C., è colui che ha coniato la fortunata espressione “Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant” ovvero “chiamano pace dove fanno deserto”, parlando proprio della sua nazione e della sua civiltà, la Roma imperiale. L’espressione tacitiana è oggi adottata come motto da molti movimenti anticolonialisti. Per non parlare poi della figura storica di Gesù detto il Cristo, ispiratore delle prime ideologie egualitarie di massa o ancora, in tempi più recenti, le posizioni di illuministi italiani come Cesare Beccaria o Pietro Verri rispettivamente su pena di morte e tortura. Insomma, se tutti sono figli del proprio tempo dobbiamo credere che anche ai loro tempi si potesse già pensare diversamente. È troppo facile bollare queste persone come “rivoluzionarie”, dandogli il merito di aver precorso chissà quali tempi. Se Platone poteva già immaginare una società senza schiavi, vuol dire che i suoi tempi potenzialmente erano già maturi perché si realizzasse una società di questo tipo.

Platone è anche ricordato per essere stato l’ideatore di una sorta di “comunismo ante-litteram” sempre nell sua Politeia. Ma è in questo caso che dobbiamo guardarci bene dallo scadere in anacronismi faziosi, non quando riconosciamo negli autori di ogni epoca dei valori immanenti.

Ma la polemica va avanti e i difensori di Colombo, che accorpiamo nel più vasto insieme dei difensori delle statue, urlano all’iconoclastia, alla distruzione della storia e, ancora più goffamente, accostano le statue di personaggi storici a opere d’arte. A questi signori va che ricordato che: 1. la damnatio memoriae in epoca romana, ovvero la madre di tutte le iconoclastie, consisteva nella cancellazione del nome di figure politiche ritenute indegne di essere celebrate in statue, iscrizioni e monumenti e che i più di quaranta tra condottieri, consoli e imperatori che l’hanno subita (tra i quali ricordiamo Marco Antonio, Caligola e Commodo) non sono stati dimenticati dalla storia e anzi non pochi di essi a più di duemila anni di distanza sono stati addirittura rivalutati; 2. Se cerchiamo qualcuno che ha tentato di cancellare la storia, non c’è bisogno di andare a scomodare gli iconoclasti ma i distruttori di libri e biblioteche, siano essi i nazi-fascisti, i primi cristiani che arsero la biblioteca di Alessandria, i miliziani dell’Isis o gli pseudo-comunisti cambogiani di Pol-Pot; 3. Una statua di Napoleone è forse solo in un’ultima analisi un’opera d’arte. Essa è prima di tutto la celebrazione di un personaggio storico. Pertanto, se mischio arte e storia non ottengo né l’una né l’altra, ma un mix poco omogeno che chiamiamo appunto celebrazione. Ma la storia non celebra i fatti: la storia li espone.

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Siamo sinceri, la damnatio memoriae di Commodo non ha impedito agli storici di ricostruire nei secoli un ritratto dell’Imperatore antonino. In questo senso ha fatto molti più danni Il Gladiatore di Ridley Scott.

Pertanto, ai sedicenti moderati che intonano il ritornello del “è sbagliato cancellare la storia”, si risponde che chi abbatte le statue di Colombo o degli schiavisti non cancella la storia; chi rimuove temporaneamente Via col vento per ricaricarlo con un’avvertenza per contenuti razziali non cancella il cinema; chi imbratta la statua di Montanelli mettendo in discussione la celebrazione di un pedofilo colonialista, non brucia ciò che Montanelli ha scritto. Montanelli sarà sempre leggibile e consultabile, anche se il parco a Milano sarà intitolato a qualcos’altro. In sostanza, chi protesta in questi giorni in America e in Europa non chiede che la storia venga cancellata ma proprio il contrario, e cioè che la Storia venga interpellata ancora di più per conoscere i fatti nella loro complessità, anziché per legittimare celebrazioni che ben poco hanno a che fare con la storia.

La celeberrima risposta di Montanelli a Rossella Locatelli è stata di solito bollata come esempio di sincerità e franchezza. Ma il fatto di non nascondere mai l’aver avuto rapporti non solo con una minorenne, ma con una minorenne infibulata non sminuisce la gravità della situazione.

A questo punto, le possibili obiezioni a quanto esposto finora potrebbero essere due: un’accusa generica e inflazionata di ridurre una figura storica – soprattutto nel caso di Montanelli – ai soli lati negativi, magari faziosamente e in secondo luogo di dare adito potenzialmente alla rimozione di molte altre statue e monumenti che possono essere o risultare offensivi per l’identità di un popolo. Alla prima obiezione si risponde che in realtà la riduzione delle figure storiche a una sola narrazione, positiva o negativa che sia, è qualcosa che è stato fatto finora proprio dai cultori delle statue o in generali dai difensori delle icone. Non a caso quando ci sentiamo particolarmente grati verso una persona non le diciamo “ti dedicherei un capitolo storicamente accurato nei prossimi manuali di storia” ma “ti farei una statua”. Alla seconda obiezione invece si può rispondere in due parti: in primo luogo, dobbiamo distinguere i monumenti di solo valore artistico da quelli che invece hanno un impatto ancora vivido nella memoria e nell’identità dei popoli. L’esempio classico che tiene banco in questi giorni è la Colonna di Traiano a Roma, la quale potrebbe risultare offensiva perché mostra dei daci schiavizzati dai romani. Ma la Colonna di Traiano può risultare offensiva al massimo per i daci, popolazione che ormai non esiste più, allo stesso modo di come non esistono più i romani, i galli, i cartaginesi o gli antichi egizi. Per quanto riguarda invece esempi di altre statue “a rischio” allora la risposta, in forma di proposta, è molto semplice: si rimuovano tutte le statue di personaggi storici dai luoghi pubblici all’aperto. Le statue non sono storia ma celebrazione e ogni celebrazione è di parte, sempre. La storia non si studia nei parchi pubblici, nelle vie o nelle piazze. La storia si studia leggendo, ricercando, magari interrogando anche reperti storici come chiese o altre infrastrutture ma appunto con l’atteggiamento di chi cerca la verità, qualunque essa sia, e non delle effigi o degli eroi di cui fare sfoggio.

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In realtà l’abbattimento di statue è una costante della storia dell’uomo. È come se ogni statua prima o poi fosse destinata a essere abbattuta, specialmente nei luoghi pubblici all’aperto. Ma ciò non ha mai influito negativamente sulla storiografia, anzi, ne ha rafforzato e spronato la ricerca storica.

Rimuoviamo quindi ogni statua di personaggi storici da paesi e città e non consegniamo alle icone il ricordo del passato, ma sproniamo la popolazione allo studio indipendente della storia. Rimuoviamo anche le statue di personalità “intoccabili” come Gandhi, per fare un esempio, il quale ha tutte le ragioni per essere venerato in India ma magari non tanto in Sudafrica, dove studiò. Le statue rimosse potranno essere successivamente esposte in un museo, proprio per ricordare “come eravamo”, cosa celebravamo e perché. A Madame Tussauds, d’altra parte, c’è anche una statua di Hitler, ma nessun ebreo si sente offeso da ciò. Certo, il problema sarebbe diverso se quella statua di cera fosse esposta per le vie di Londra, ma appunto, non è così. Rimuoviamo le statue e se proprio dobbiamo esporre qualcosa, mettiamo al loro posto delle iscrizioni che riassumano un fatto storico avvenuto in quel luogo, come avviene già in molti edifici (anche a Pavia).

Pavia è una città costellata di targhe commemorative. Esse sono meno costose, meno ingombranti e più informative rispetto a qualunque statua.

Una simile proposta potrà forse sembrare radicale, ma in realtà vuole essere in accordo con i principi del buono storico, il quale non deve limitarsi a ricercare i fatti ma deve anche esporli nella maniera più imparziale. Solo limitando i luoghi della nostra memoria individuale possiamo far spazio al metodo di ricerca storico imparziale in ognuno di noi. Oppure, possiamo continuare a mistificare i personaggi storici per una narrazione nazionale e faziosa, una narrazione che risponde al nome di propaganda.

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