Concorsi

Quel lungo giorno da cani – Federico Angriman

di Federico Angriman

Sentiva chiaramente il freddo della lastra di acciaio della porta pungergli la schiena, ma aveva deciso di ignorarlo; gli sembrava poco appropriato pensare ad un così leggero disagio mentre aspettava quella che sarebbe potuta essere una delle notizie più gioiose o più drammatiche della sua vita. Riteneva che il solo pensare all’idea di alzarsi e abbandonare la porta per pochi secondi, per scaldarsi o procurarsi una coperta, rappresentasse una colpa, un gesto superficiale ed egoistico, si diceva, non meno grave del peccato di Adamo. Non che fosse mai stato religioso, lui. Allo stesso tempo quel lieve intorpidimento, che gli piaceva pensare fosse un dolore, assumeva nella sua testa la forma un coraggioso sacrificio, per il quale poi sarebbe stato ripagato. In silenziosa e dolorosa attesa aspettava, con la schiena appoggiata alla porta, ascoltando solo i suoni che la serratura inghiottiva dal mondo esterno. Aspettava un esatto rumore.
Con la schiena dritta e la testa inclinata, come se con lo sguardo stesse cercando di superare un inesistente ostacolo, pensava. Sentiva le grida sgraziate dei bambini provenire dal parchetto dall’altra parte della strada. Ci andava spesso a giocare anche lui, anni prima; dietro le altalene, su una distesa di terra polverosa che pochi giovani sognatori chiamavano “campo da calcio”, inseguiva anche lui palloni sgonfi, rotolando spesso assieme quelli. I grandi lo guardavano divertiti in mezzo alla massa confusa e urlante di bambini. E tra loro, ricordava, c’era anche Lei. Nel suo sguardo vedeva l’amore, e per attimi si dimenticava di tutto ciò che lo circondava, della polvere negli occhi, del naso dolorante, delle mani che lo spingevano. Forse, si disse, senza distrarsi dallo scrutare il muro davanti a lui, chi cresce non si merita lo stesso affetto dei piccoli; forse le carezze e i baci non hanno più senso dopo una certa età.
Si scosse un momento e si concentrò nuovamente sui suoni di quella realtà così vicina nello spazio ma così lontana nel tempo e nel valore, effimero, che gli pareva assumesse rispetto alla sua attesa. Sentì, probabilmente dal tetto, alcuni uccelli gracchiare con un tono che aveva sempre associato alla paura ma che ora, di fronte al mondo di incertezze che riconosceva davanti a sé, avrebbe potuto benissimo essere una risata sgraziata. Di nuovo, attraverso la serratura, la sua memoria evase verso quei giorni in cui assieme a Lei rincorreva i pennuti che con fare arrogante planavano sulla loro strada. Ogni tanto gli capitava anche di riuscire ad afferrarne uno per una zampa o per la coda ma Lei, con una dolcezza che in piccoli gesti raccoglieva il senso di un mondo innocente e giusto, che altri, tra cui lui stesso, faticavano a comprendere se non sottoforma di imposizioni e leggi, liberava la vita di cui lui pensava di essere diventato giudice, scambiandola con un dolce sguardo. E allora, come in ogni altro momento, in quegli occhi scopriva il suo posto in quel mondo ideale.
Aveva anche provato a sostituirla, a staccarsi da Lei e a dimenticarla, almeno in parte; ma non vi era mai riuscito. A dire il vero, un’altra volta lo era stato, innamorato. Ma ben presto, dopo che era finita, aveva capito che non aveva fatto che cercare un altro corpo in cui proiettare tutto ciò che più gli piaceva di Lei, ignorando ogni altro aspetto della persona che gli si presentava di fronte. Ed era stato per settimane divorato dal rimorso per aver illuso quell’amore di un mese, per averlo trattato come mai si dovrebbe trattare un essere vivente: come una scatola da svuotare e riempire a piacimento. Si chiamava Lolita, la sua quasi innamorata. L’aveva incontrata proprio mentre passeggiava con Lei, in un parchetto poco distante. Lolita era stesa sull’erba, con una violetta, forse posata o forse solo impigliata dietro l’orecchio; quella a lui, era sembrata simbolo di una profonda e, forse, pure a lei ignota eleganza. Essere così belle tra fili d’erba e insetti saltellanti non è da tutte, aveva pensato. Era in compagnia di un’amica di Lei e così si erano fermati a parlare. Ed erano rimasti lì per ore. Lolita aveva una voce squillante che perfettamente si conciliava con la sua piccola taglia, ed era spiritosa e così piena di vita. Si erano anche
nascosti dietro agli alberi, lontano da Lei, a ridere e, poi, a baciarsi. Quando il freddo aveva cominciato ad essere fastidioso si erano divisi, ma si erano rivisti poi l’indomani, e poi il giorno successivo e il giorno dopo ancora. Finché un giorno tutto era semplicemente finito, nel nulla, come se nulla fosse mai iniziato. Lolita, non si presentò più e Lei gli disse che aveva avuto problemi con una bambina e che l’avevano dovuta portare lontano. Lontano da lui. E così tornò ad essere solo; solo con Lei.
Ed ora era ancora lì, lui, aspettando Lei. Era ancora schiavo di quell’amore senza scampo. Con la schiena contro la porta e lo sguardo fisso sul muro provava ad odiarla, a piangere, a sentirsi ferito e usato, vittima di quella bellezza alla cui altezza non si era mai sentito. Ma non ci riusciva. Lei non aveva colpe, Lei non era mai stata cattiva come lui, Lei non aveva mai sbagliato, Lei non si era mai sporcata nel fango, Lei non aveva mai rotto un vaso. Era sicuramente colpa di lui. E ora aspettava, non sapeva bene cosa, forse un perdono, forse uno sguardo; non sapeva neppure per quanto, forse per pochi minuti, forse per giorni; aspettava.
Sentiva il mondo, la vita, che gli correva attorno, ne vedeva le luci filtrare dalla serratura e ne sentiva i rumori, talora frenetici, ma soprattutto ne sentiva il silenzio, e si sentiva meno solo in quegli attimi.
Si alzò e fece qualche passo. Le gambe non gli reggevano più bene come una volta, non era più giovanissimo e lo sapeva. Avrebbe aperto una finestra se solo avesse potuto raggiungerla, ormai si soffocava in quella stanza. Ma era cosciente del fatto che non era l’aria il suo problema in quel momento. Era l’attesa che lo strozzava, quell’impossibilità di sapere e capire cosa sarebbe stato di lui dopo che Lei avesse girato la chiave e aperto la porta, cosa gli avrebbe detto, come lo avrebbe guardato. Intanto camminava in tondo nervosamente. Uno spiffero di aria lo colpì improvvisamente al collo e decise di tornare alla porta, sotto la serratura, al sicuro dal mondo esterno su cui lei si apriva.
Fu allora che sentì una macchina parcheggiare a pochi metri dall’entrata. Penso che potesse essere Lei. Lei amava guidare e andavano spesso a fare piccoli giri senza scopo o a visitare grandi città. Sentì la porta della macchina chiudersi delicatamente e pensò sempre più a Lei. Lei chiudeva sempre la portiera e le porte in generale con gentilezza, quasi avesse paura di far loro male o di disturbare qualcuno o, peggio, di non riuscire più ad aprirle una volta serrate. Il pensiero lo fece sorridere. Seguirono passi leggeri e veloci sulle scale e lui si sollevò e arretrò rispetto alla porta. Sentì la sua risata gioiosa mentre frugava nella borsa cercando le chiavi. Poi sentì la chiave entrare nella serratura e fu silenzio. Il tempo si fermò. Lei era lì e tutto poteva ancora essere. La sua presenza non significava nulla in quel momento, non gli poteva dire cosa sarebbe stato di lui, non poteva dirgli se lo amava ancora, non poteva dirgli se domani sarebbe stato ancora lì. L’attesa non era finita, e ora non era neppure certo di sapere se avrebbe voluto che finisse. Quel solo attimo insignificante lo divideva da un mondo inesplorato di potenzialità senza certezze. Ma non aveva più senso aspettare. Non aveva senso continuare a vivere all’infinito quell’istante. Si abbandonò al tempo. Lei entrò. Appena lo vide sorrise, con amore, e parlò:
– Ciao Pablo!
– Bau – rispose lui, facendole le feste.
Anche oggi era andato tutto bene.

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