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TF33 : Il meglio della programmazione

In aggiunta ai titoli del concorso, sono molteplici, come di consueto, le sezioni e sottosezioni che infarciscono la proposta di un Festival in grado di sondare più orizzonti cinematografici. Si va dalla suspene come tono generale in “After hours” e “Cose che verranno” (rassegne dedicate rispettivamente al genere mystery e alla riesumazione di certa cardinale fantascienza sociale) ai linguaggi sperimentali di “Onde” e “Torinofilmlab”, passando per le fittissime ed eterogenee “Festa Mobile” (comprensiva di produzioni di fiction) e “TFFDOC” (documentari), senza dimenticare lo spazio riservato al cinema locale e nazionale in formato corto con “Spazio Torino” e “Italiana.Corti”.

Spiccano in particolare: l’eclettica congerie di horror sotto il nome di “After hours”; la selezione di “Onde”, riservata alle personalità d’autore emergenti e di consolidata affermazione; le traiettorie documentarie afferenti alle tre declinazioni “Internazionale.doc”, “Italiana.doc” e “Mediterraneo”. Non mancano, infine, nomi e titoli di richiamo all’interno del cosiddetto “fuori concorso” “Festa Mobile” (la trilogia di Miguel Gomes As Mil e Uma Noites, Nie yin niang di Hou Hsiao-Hsien, Hong Kong Trilogy di Christopher Doyle, Brooklyn di John Crowley), arricchito di una serie di appendici altrettanto significative con excursus relativi alla dimensione della rappresentazione teatrale (con la prima dell’Hamlet al National Theater) e alle figure di Orson Welles e Terence Davies.

C’erano una volta Figure con Paesaggio e Paesaggio con Figure. Erano il lato artistico spensierato del cinema.

Nel 2013 After hours le ha fuse assieme con “proiezioni che si svolgono «intorno a mezzanotte»”. Il lato più artistico delle sezioni è stato così mantenuto attraverso l’accezione di “After hours” come “periodo lavorativo” degli artisti jazz, ma purtroppo a costo di creare un calderone di film.

A causa di ciò, almeno quest’anno, alcuni dei film della sezione risultano schiacciati da produzioni più attente. È il caso di The Devil’s Candy e February che, partendo da idee molto accattivanti, lasciano terreno di fronte alla estatica e lenta bellezza di Evolution di Lucile Hadzihalilovic o alla iconica fiaba oscura che è The Hallow di Corin Hardy.  A seppellire l’underground ci sono anche le contaminazione con il comico, quest’anno rappresentata da due pellicole di registi stranieri con taglio hollywoodiano: Moonwalkers di Antoine Bardou-Jacquet e The Final Girls di Todd Strauss-Schulson, una vera piccola sorpresa di questa sezione.

Uno spazio proprio necessitava Sion Sono, regista giapponese presente con ben tre pellicole (anche se di dubbio esito) che già nel 2008 aveva ricevuto l’onore di una sezione dedicata.

Insomma, il 2015 di After hours si può solo spiegare con l’idea che il suo fil rouge sia l’orrifico e non l’orrore o l’arte. Il Devoto Oli online definisce orrifico come ciò «che suscita orrore» ed è colo così che si giustificano film non di genere, come il migliore della sezione, Kilo Two Bravo (Kajaki) di Paul Katis, a pellicole underground.

Certo, manca comunque l’arte. In molti dei titoli citati l’unica componente veramente artistica è rappresentata dagli sforzi citazionistici e metacinematografici. In tal senso s’innesta l’immane esercizio stilistico del duo Maddin-Johnson, The Forbidden Room , forse visione più indicata per il pubblico del cinema sperimentale di Onde, ma di certo il film più in linea con la sezione per il suo difetto: la caoticità.

La sezione Onde del trentatreesimo Torino Film Festival vede la partecipazione di quindici film tra lungometraggi, corti e mediometraggi. A dominare il panorama sono due autentici mastodonti del cinema asiatico: l’attesissimo Rak ti Khon Kaen (Cemetery of Splendour) del thailandese Apichatpong Weerasethakul e la quasi quarantennale fatica del filippino Kidlat Tahimik, Balikbayan #1 Memories of Overdevelopment Redux III, opera titanica iniziata nel 1979 e protrattasi nel tempo fino ad assumere le proporzioni di uno sconfinato saggio sul colonialismo (tanto per essere riduttivi) in forma di circumnavigazione. Degni di nota anche il colombiano di memoria alonsiana Nacimiento (Delivery), immersione dal carattere contemplativo nella natura selvaggia del Sud America catturata attraverso estatici long take, e i documentari Des Provinces Lontaines (Dalle Province Lontane), dedicato al cinema di Tonino De Bernardi e Alberto Momo con un asincronico Enrico Ghezzi in veste di guida, e Faire la Parole (Fare la parola) di Eugène Green, sulla complessa situazione della lingua e cultura basca. Tra le sorprese, A Vida é Estranha, inedito filmino amatoriale girato in 8mm da Glauber Rocha durante una vacanza in Marocco nel 1974 e recuperato da Mossa Bildner, allora compagna del grande regista. Decisamente underground la parabola psichedelica di Heterophobia e il found footage in chiave autobiografica Stand By For Tape Back-Up, mentre Julia Pesce cattura con Nosotras. Ellas i ritmi e gli umori della sua famiglia in un film interamente al femminile. Scivola, invece, senza troppe pretese il celebrativo Aqui em Lisboa, opera quadripartita realizzata in occasione del decimo Festival IndieLisboa dai registi Denis Côté, Dominga Sotomayor, Gabriel Abrantes e Marie Losier.

Per concludere, quest’anno la sottosezione di “Onde” è costituita dai corti Artrum (con riferimento alla redrum di Shining), raccolta di sei titoli tra cui si segnalano il cupo Untitled (Human Mask) e Tehran-Geles.

Benché la tripartizione scelta quest’anno per la programmazione documentaria finisca per ordinare scrupolosamente l’insieme di visioni a seconda del paese di produzione, essa non può che apparire meramente classificatoria se si presta attenzione ai contesti d’indagine assunti dai vari filmmaker. Le confermatissime “Internazionale.doc” e “Italiana.doc”, affiancate dalla via parallela tracciata con l’itinerario Mediterraneo, risultano infatti dei fragili contenitori, collezioni di sguardi indirizzati sovente, con ragioni diverse, oltre il confine della propria terra. È il caso di Irrawaddy Mon Amour di Testagrossa, Grignani e Zambelli, visita a un villaggio della Birmania dove filmare la straordinarietà di una segreta unione gay; quello di Stefano Galli, autore di un viaggio negli Stati Uniti alla scoperta della parte più bizzarra della provincia americana con Lamerica; o ancora l’esperienza vissuta in Francia dalla regista israeliana Carmit Harash che attraverso  est la guerre tenta di risalire ai prodromi del terrore nella città di Parigi. Allo stesso modo, anche i soggetti inquadrati, costretti a guardare soltanto da lontano le proprie case e le proprie radici, rendono testimonianza più o meno diretta di una condizione assurta a delicato oggetto di discussione nel presente. Così, se Flotel Europa di Vladimir Tomic, ripercorrendo i momenti più teneri trascorsi dal regista in un hotel ormeggiato a Copenaghen, ricorda l’esodo seguito alla guerra in Bosnia ed Erzegovina, Dustur di Marco Santarelli riflette sulla possibilità di integrazione fra culture diverse nello stesso spazio a partire da un principio di reciproca comprensione. Ma, probabilmente, a siglare la matrice comune di ciascun film compreso nelle sezioni di documentari è la grande opera di Jean-Daniel Pollet Mediterraneetour cullante di ineguagliata bellezza, vera costruzione poetica per immagini riproposta in 35mm, per un esempio di cinema capace di esprimere la libertà del desiderio di conoscenza che deve ispirare l’esplorazione di ogni luogo.

Gli Studenti di Scienze dello Spettacolo, del Teatro e del Cinema all’edizione del 2015: Riccardo Bellini, Daniele “Spirito Giovane” Fusetto e Sebastiano Lombardo

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