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L’ultima cena dei condannati a morte

Qualche settimana fa il mondo del web ha “condiviso” il lavoro del fotografo neozelandese Henry Hargreave: una rassegna fotografica dal titolo “No Seconds” dedicata agli ultimi pasti dei condannati a morte negli Stati Uniti. Le sue fotografie sono delle contraddizioni su carta, piatti dal bell’aspetto riempiono l’immagine e, accanto, i dati anagrafici del commensale, il suo reato e la sua pena. Timothy McVeigh è un pluriomicida, ha ucciso circa 168 persone, e chiede di mangiare una coppa di gelato alla menta e cioccolato. Il progetto di Hargreaves vuole essere, almeno nei confronti del common sense, un tentativo di abolizionismo. Le foto vogliono stimolare pietà nello spettatore, non per Timothy, no, il cui crimine spegne ogni possibile slancio emotivo in sua difesa, ma per l’uomo in generale, per essere costretto a morire e a scegliere con quale ultimo sapore in bocca passare a miglior vita. La pietà non è per il criminale, ma per la pena.

Il dibattito sulla liceità della pena di morte è molto giovane, è una questione tanto cara agli abolizionisti quanto inutile per gli anti-abolizionisti: la pena di morte, l’omicidio per legge, è inconcepibile per i primi e naturale per i secondi. Essere a favore o contrario vuol dire avere due concezioni diverse di cosa sia la giustizia, e, quindi, di cosa renda giusta una pena.

All’interno del dibattito filosofico-politico, gli anti-abolizionisti sono gli uomini dei principi, per i quali le leggi sono il criterio più importante per giudicare un’azione. Ai loro occhi la funzione della pena è la retribuzione, il perfetto equilibrio tra ciò che si dà e ciò che si riceve; quella che a noi è meglio nota come la Legge del Taglione “occhio per occhio, dente per dente”. Non è ovviamente una cieca corrispondenza ma un modo per salvaguardare l’uguaglianza, che qui però suona come “chi provoca morte, morte riceve”. Per un anti-abolizionista la pena di morte è giusta perché ripaga ciò che il condannato ha rubato, abolirla vorrebbe dire rischiare che il detenuto, una volta fuori di prigione magari per mano della “grazia”, commetta ulteriori crimini. A quel punto sarebbe inevitabile chiedersi: e se fosse stata applicata la pena capitale? Quanti ne avremmo salvati?

Gli abolizionisti sono invece utilitaristi, il loro scopo è valutare non secondo i buoni principi ma secondo le buone conseguenze, le migliori, per il maggior numero di persone possibili. Per gli abolizionisti la pena deve essere di tipo preventivo per evitare che il crimine si commetta ancora. La sua forza non deve stare nell’intensità con cui si somministra (uccidendo), ma nell’estensione con cui la si sopporterà (l’ergastolo). La pena di morte potrà anche essere giusta, ma non è di sicuro utile e a dimostrarlo sono i tanti casi di errore giudiziario, cause di morti per crimini non commessi, e l’emenda: uccidere un detenuto impedisce che questi possa correggere i propri errori. In entrambi i casi, insomma, preservare la vita è più utile che perderla. Lo Stato, secondo gli abolizionisti, nel momento in cui condanna a morte un detenuto, sceglie di uccidere anche potendo fare altrimenti, non può vestire i panni dell’individuo che ha il diritto alla legittima difesa. La pena di morte non è neanche per forza la più intimidatrice tra le pene: così come i detenuti hanno scelto, chi il pollo fritto, chi fragole e gelato, sceglierebbero di pagare i propri debiti chissà come, come si potrebbe mai decidere cosa è più intimidatorio per tutti? E’ concesso quindi allo Stato il diritto di punire ma non il diritto di uccidere.

Entrambe le parti potranno sempre addurre buone ragioni per avvalorare le proprie tesi perché nessuna di queste è oggettivamente, per tutti, migliore dell’altra. Il dibattito però rimane acceso. Magari non sarà importante convincere il compagno di cella che il gelato è più buono del pollo fritto, in fondo, lasciare che ognuno scelga a modo suo non fa del male a nessuno. Abolire o mantenere la legge capitale è però questione di vita o di morte.

Il quinto Comandamento recita “non uccidere”. A prescindere da valutazioni religiose, i 10 Comandamenti sono la prima forma di legge morale che l’uomo conosce, leggi degli uomini per vivere bene tra loro e per limitare ogni tentativo, per noi così naturale, di invadere lo spazio altrui perché insoddisfatti del proprio. Timothy ha infranto il comandamento, ha privato del diritto alla vita 168 persone e, non vorremmo dirlo ma è così, lo Stato ha più o meno fatto altrettanto. Non si può punire la morte con la morte, “occhio per occhio”, perché si sbaglierebbe comunque, e si creerebbe una catena infinita di violenze e giustificazioni che sarebbe poi difficile sciogliere. Non si tratta di scegliere tra la Legge del Taglione e il “porgere l’altra guancia”, ma di punire chi merita, e basta. Punire non per forza con la morte, l’importante è punire e fare della grazia un uso più moderato. Dopotutto, punire chi merita è concettualmente già un giusto contraccambio ed è anche utile quasi per tutti. Timothy non gusterebbe mai il suo gelato alla menta e cioccolato, mangerebbe ogni giorno il pasto insapore del penitenziario, quel giorno, così come per tutti gli altri che lì dentro gli restano da vivere.

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