Cultura

Teatri in sciopero contro il decreto Bondi

di Giovanni Cervi Ciboldi

Italia vuol dire cultura, e cultura spesso si pronuncia Italia. Molti di quei settori che hanno reso l’arte patrìa immortale nel tempo sopravvivono oggi tra sempre maggiori difficoltà.
Sono ormai anni che il mondo del teatro versa in una situazione delicata. Le fondazioni navigano nei debiti – cinque hanno addirittura subito un commissariamento – e il contratto nazionale è scaduto da anni.
Quello che teatri e fondazioni si aspettavano per ridare linfa vitale al loro settore era una riforma globale. Invece è arrivato un decreto: diciassette pagine controfirmate dal capo dello stato che bloccano concorsi e assunzioni per 3 anni e tagliano gli stipendi di artisti e dipendenti. Tutto in nome di una “razionalizzazione delle spese”.
All’origine della situazione problematica in cui versano i dipendenti del mondo teatrale vi è una manovra risalente al 1998, anno in cui gli enti lirici sono stati trasformati da pubblici a privati. Il varo della legge sul precariato ha poi esteso le nuove norme ai dipendenti dei teatri, i cui contratti vengono rinnovati annualmente, nonostante lavorino per 11 mesi all’anno, cioè come ogni lavoratore assunto però a tempo indeterminato.
Il fatto che un taglio degli stipendi, poi, avvenga attraverso un decreto legge è cosa che ha pochissimi precedenti (e in tutti questi, tale forma era necessaria per ragioni d’urgenza che qui sembrano non sussistere).
La serrata dei sindacati si è sviluppata in tutti i maggiori teatri e fondazioni del paese, da Torino a Firenze, da Milano a Roma, attraverso l’annullamento degli spettacoli previsti, manifestazioni e happening musicali per sensibilizzare il pubblico; ma il Ministero dei Beni Culturali, nella persona del sottosegretario Francesco Giro, uno dei co-autori del decreto insieme al ministro Sandro Bondi, chiede “tre anni di sacrifici” e promette che “la riforma gliobale arriverà entro dieci mesi”. L’opposizione afferma invece che il decreto sarà contestato duramente al momento in cui dovrà essere convertito in legge.
Bloccare le assunzioni implicherà ancora una volta, come già accaduto in molti altri settori, minare il futuro dei giovani. E ciò causerà, nella maggior parte dei casi, una fuga di cervelli che, se non seguita da un radicale cambio di linea, sarà difficile da arginare.
Depauperare il patrimonio artistico nazionale è una scelta che va controcorrente rispetto alle ambizioni di molti altri stati europei che possono vantare una tradizione pari alla nostra, e che operano ogni giorno per mantenerla viva.
Resta da capire se questa decisione del governo deriva dalla perdita di rilevanza nella centralità della cultura negli ambienti politici. Perchè sacrificare la musica è una scelta politica prima che economica, e si scontra con l’operato di chi, da anni, lotta per difendere la dignità del lavoro artistico.

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