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“Credoinunsolodio”, di Stefano Massini

Un inquietante senso di familiarità accompagna l’incipit di Credoinunsolodio, di Stefano Massini, un’assuefazione che non si limita alla vista dei marmi geometricamente simmetrici dei cafè un po’ rétro, ma che si espande pericolosamente fino ad includere le rovine che dominano il fondale, stridenti biancori ridotti in macerie da un’Apocalisse già vista.

Il consulente artistico del Piccolo Teatro di Milano ripercorre l’insidioso conflitto israelo-palestinese: il testo, pubblicato per la prima volta nel 2011 – all’indomani delle sollevazioni che scossero il Medio Oriente ed il Nord Africa e passate alla storia recente con la denominazione di “Primavere arabe” -, viene proposto a Milano per due stagioni di seguito, a partire dal 2015; le esplosioni sono diventate consuetudini, i veli ormai oggetto di dibattito quotidiano, mentre il conflitto in questione continua a protrarsi nel cono d’ombra di sommosse più fragorose. I numeri proiettati sullo schermo nero si inseguono affannosamente, per tornare in circolo ad un tempo che rasenta l’immobilità e la stasi: quegli eventi, che non sembrano suscettibili di cambiamento, li conosciamo già, ne sentiamo ancora parlare.

Stefano Massini offre alle scene un testo spaventosamente attuale e capace di incarnarsi in modo sempre più morboso nella realtà dello spettatore: Dio e l’odio si rincorrono, il Dio dell’odio guida le braccia che brandiscono i fucili, l’odio per il Dio tiene calde le ferite delle vittime. Il testo riduce le umanità delle parti in conflitto a tre donne, e attraverso le loro bocche serrate si spande il veleno dell’incomunicabilità tra i popoli. Come in un’estenuante ricerca della verità tramite processo, Mandracchia, Toffolati e Torres si raccontano e disegnano i contorni dei rispettivi contesti nazionali: la Palestina, irrequieta e tremante, si muove e pensa convulsamente, sotto il macigno del senso di ingiustizia che esige il sacrificio estremo; Israele, nelle vesti di una docente di storia ebraica che adotta un punto di vista sionista ma (sottolinea con scrupolosità) obiettivo, e che non sarà immune dal terrore della morte improvvisa e casuale; l’Occidente, nella tuta mimetica dell’egemonia americana, mentre attribuisce un peso ai “contrattempi” discernendo del giusto e dell’errore, avulso da ogni forma di profonda religiosità e sordo ai motivi delle diatribe. I tre punti di vista sono egualmente credibili e intensi, perché scevri da qualsivoglia forma di giudizio morale; Massini crea tre donne complesse ma schiette: lucidamente, le ragioni emotive e razionali del loro agire si dipanano lungo l’evoluzione della vicenda, conferendo allo spettacolo innumerevoli tonalità cromatiche su un continuum che oscilla dall’incomprensione al terrore, dalla sordida lotta all’affetto più intimo.

La regia della Torres compatta le storie in un magma indistinto da cui si levano schegge e lampi di luce, frammenti di storie comprese a fatica e raccontate a tavolino, sulla soglia di una porta cigolante, durante un estenuante appostamento. Poi gli intrecci si sciolgono e il filo narrativo si scinde in tre parti: durante i racconti l’intervento registico si riduce al minimo per riemergere con rinnovato vigore nei frammezzi riservati alla potenza del corpo dell’attore in movimento. Le tre attrici si rincorrono, scattano in ogni direzione, contraggono i muscoli e li sciolgono in salti sconnessi e confusi; poi rimangono immobili, per lunghe pause scandite dal ticchettio assente dei numeri sullo schermo. La fatica fa vibrare gli arti, il respiro si fa pesante e soprattutto unanime: le tre figure per alcuni istanti diventano scenografia, e i personaggi ancora inespressi mescolano le loro ombre sul sostrato assordante di rumori indefiniti e lontani.

Le tre vite, svoltesi fuori dall’ordinario, abitano sfere adiacenti eppure estranee: quando la nebbia delle vicende si dirada, i tre destini si incrociano inseguendo uno zaino arancione, una soffiata, l’anelito ad una ordinaria tranquillità. Sul finale, gli sguardi si riflettono gli uni negli altri, i tavoli si avvicinano improvvisamente, le voci delle attrici si sovrappongono e collidono: è il trionfo del silenzio e lo scontro finale delle opinioni che gettano lo spettatore nel buio della conclusione.

Credoinunsolodio è una scelta peculiare se si scorrono le ultime – e meno recenti – locandine affisse al Piccolo Teatro: in un ventaglio che si apre dalla riproposizione dei grandi classici alla sperimentazione estrema, e in un susseguirsi di proposte che denudano l’arte teatrale e consegnano al pubblico l’esperienza palpitante dell’attore che si fa uomo, la riproposta di Massini ha un sapore distinto e vagamente vintage. Il drammaturgo ritorna all’uso dello strumento testuale per rievocare luoghi, dettagli, profili impregnati di storia secolare e consuetudini orrende: soltanto così restituisce all’arte teatrale l’espressività che le è propria, e regala allo spettatore un viaggio nell’eloquenza del suono e nell’armonia del discorso a più voci.

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