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13 Reasons Why – La rottura del tabù

Di 13, il nuovo caso Netflix, avevo già sentito parlare quando, anni fa, lessi il libro scritto da Jay Asher (13 Reasons Why, titolo originale). La tematica è quella controversa del suicidio giovanile, declinato nella storia di una ragazza che arriva a questo passo attraverso una serie di sfortunate vicissitudini. Il romanzo, alla fine dei conti, è piuttosto asciutto: oltre alla vicenda di Hannah Baker, narrata da lei stessa attraverso delle audiocassette, seguiamo anche quella di Clay Jensen, uno dei destinatari dei nastri, e del suo travaglio interiore nell’entrare in contatto con del materiale così scottante, così doloroso. Non molto di più, poche comparse e poche deviazioni dalla storia principale.

I pro

La serie tv, ha tutt’altro respiro:  creando un universo molto più vasto e complesso attorno alla vicenda principale, gli scrittori sono riusciti (con qualche inciampo e, a mio parere, forzatura) a sviluppare un prodotto valido. Sotto il profilo strettamente narrativo, il romanzo viene migliorato, i personaggi che venivano solo nominati vengono elaborati e approfonditi. Il punto di vista univoco nel libro, quello di Clay attraverso la voce di Hannah, entra in dialettica non più solo con il ragazzo, ma anche con i “sopravvissuti”, che nel libro avevano limitata espressione. I temi ( emarginazione, bullismo, solitudine, violenza sessuale, alcolismo, droga, e naturalmente il suicidio) vengono sviscerati. La pillola non viene edulcorata per nessuno di questi argomenti e, anzi, mano a mano che la storia procede, si assiste ad un crescendo di crudezza che non vuole essere gratuita (come si erano imposti i produttori e i registi della serie), ma semplicemente e crudelmente sincera. Per sviluppare i personaggi coinvolti nelle varie violenze, è stata chiesta la consulenza di psicologi e testimonianze di vittime reali di quegli abusi, per offrire realismo, un vero strumento per la sensibilizzazione dell’audience. ll valore sociale di questo lavoro viene affiancato da una regia che non spicca per originalità, ma risulta efficace. Una narrazione in montaggio parallelo mostra la descensio ad inferos di Hannah Baker, attraverso la tecnica della color correction: l’una più calda, in vita della ragazza, l’altra più fredda, dopo la sua morte, per il percorso compiuto da Clay sulla scia delle audiocassette.

I contro

In generale, all’inizio risulta un po’ stomachevole: è pesante nelle prime puntate sopportare il cliché del mistero da svelare, la retorica dei bei tempi dell’analogico e della vita senza social network; in breve, fortunatamente, la narrazione lascia questi espedienti narrativi triti e ritriti per concentrarsi sul vero punto della serie, trattando gli argomenti più crudi con la serietà che si deve loro. Verso la fine, per le esperienze più gravi e dolorose,  qualsiasi giudizio viene addirittura azzerato: è qui che il dialogo, pur sempre presente, viene lasciato un po’ da parte, per lasciare spazio a primi piani insistiti e asfissianti; il racconto diventa pura testimonianza silenziosa, che lascia parlare le immagini più scioccanti.

Considerazioni

Artisticamente, la serie non porta nulla di nuovo. Secondo me, il suo valore va misurato per il  suo impatto sul pubblico. Gli autori hanno fatto centro, nel parlare di un argomento come il suicidio che è considerato tabù, e ne sono la prova le polemiche e le mozioni che ha scatenato: dall’accusa di spingere gli adolescenti al suicidio, alla proposta di promuoverne la visione nelle scuole. Chi ha ragione? Forse entrambi; l’importante, però, è che se ne parli.

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