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Brecht allo Spazio DiLà: “Raucherinnen (in Strapse)”

La Storia è orrenda, senza humor.

– Bertolt Brecht

Che cosa deve il teatro, tutto il teatro, a Bertolt Brecht?

Gli deve lo straniamento (Verfremdungseffekt, in inquietante e teutonica prosa tecnica). Gli deve la possibilità di animare in scena le peggiori e più infime pulsioni umane, dipingendole in tutta la loro desolante pochezza, senza il rischio che gli spettatori possano identificarsi con coloro che ne sono afflitti e riprodurne i comportamenti da questo lato del sipario.

Nessun melodramma, nessuno struggimento della rappresentazione: il Teatro, a differenza della Storia, lo humor ce l’ha. E quello di Brecht è caratterizzato da un’infinita, spietata, laconica e festosa ironia, aperta qua e là a spezzoni musicati che, nel parodiare con non minore ferocia lo spettacolo di grande consumo, ridono in faccia al marciume dell’umanità. Mackie Messer dell’Opera da tre soldi di strehleriana (e recentemente micheliettiana) memoria irrompe pomposo in scena mentre il suo storico tema musicale si premura di elencarne le malefatte, gli assassinii e gli infanticidi; Mr. Puntila dell’omonimo testo risulta addirittura simpatico nell’urlare al mondo il suo desiderio di volerlo tutto quanto per sé, per poterne fare la sua personale “Puntiland”.

È con le parvenze del disinteresse clinico e crudele – orientato alla comprensione critica – che Brecht allestisce la sua grottesca commedia dell’umano in scena.

E davanti a un così tragico Carnevale, lo spettatore non sa mai se ridere o piangere.

Raucherinnen-2

A tale sistema scenico è stato dedicato Raucherinnen (in Strapse), l’appositamente intitolato Omaggio a Bertold Brecht offerto tra 9 e 18 febbraio presso il milanese Spazio DiLà (via Arcivescovo Romilli 15, non lontano dalla fermata della metro Brenta): luogo giovane ma vitale, cautamente rannicchiato nella segretezza di un cortiletto condominiale, che a fronte di performance e attrezzature professionali vanta ancora un clima di amabile convivialità, dei prezzi appetibili e un’ancora più appetibile durata degli spettacoli, raramente eccedenti l’ora.

La breve pièce si snoda sul testo, il pianoforte e l’attiva partecipazione di Claudio Gaj e ha come protagoniste Ingeborg “Inga” (Delia Rimoldi) e Charlotte [1] “Shatzi” (Barbara Mattavelli), rispettivamente «custode del focolare domestico» (i.e. casalinga) e attrice di avanspettacolo «che prima però faceva la p**tana» (cit.): sono loro le “Raucherinnen (in Strapse)”, le fumatrici in giarrettiere. E nei due termini attentamente accostati si riassume con efficace istantaneità il senso dello spettacolo.

Due donne che, con lo schermo opaco delle sigarette a separarle l’una dall’altra ed entrambe dal pubblico, scoprono delle somiglianze al di là della classe, dei trascorsi, dei rispettivi ruoli di «ciabatta confortevole» sagomata dal matrimonio e fresco divertissement da degnare di qualche attenzione e di effimere promesse. Ed è qui che si apre inevitabile lo scontro, che le due diverse paia di “giarrettiere” si arroccano dietro opposte barricate, si affrontano a colpi di gag da cabaret sfocianti, nel disegno brechtiano della rappresentazione, in più feroci e inaspettati sviluppi. Giarrettiere rispettabili e giarrettiere per sedurre: entrambe marchi di costume di una Berlino sprofondata nella Seconda Guerra Mondiale, troppo occupata a inseguire il sogno della supremazia tedesca per curarsi delle piccole vicende dei suoi più umili ingranaggi.

Soldati e bombe, cannoni e trombe dal Capo a Couch Behar.

Piovesse oppure no ci si svagava un po’.

Da mattina a sera con gente bianca e nera

tra teste, braccia e gambe facevamo COCKTAILS!

– Bertolt Brecht, La canzone dei cannoni,

musicata da Kurt Weill e parte di L’opera da tre soldi.

Raucherinnen (in Strapse) è una tragedia microscopica quanto ben orchestrata, aristotelica nella fulminea e inaspettata rapidità della sua esecuzione come nell’inscindibilità dal suo desolante setting, quello del più umile e polveroso ufficio tedesco. Dominio quest’ultimo di un funzionario dalle pretese militari, di un pavone aperto alle lusinghe allocco e inadeguato quanto incurante dei cittadini: e dominio per estensione di uno Stato tedesco intento a giocare alla guerra sulle spalle dei suoi soldati, delle loro moglie tradite, delle amanti illuse. Uno sfondo di sterile burocrazia per l’infinitesimale vicenda che si svolge in primo piano, culminante in un finale plateale quanto desolatamente umano.

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Uno spettacolo infuso di ilare sapienza e struggente distanza degni della sua fonte di riferimento, animato dalle stesse musiche che hanno reso memorabili gli originali brechtiani e capace di concedere spazio alla riflessione là dove si arresta la risata.

Se quanto scritto finora può valere qualcosa, non resta che invitare tutti i lettori alla prossima fatica della vivace nicchia teatrale, una riproposizione de La terra desolata di Thomas Stearns Elliot (1922) prevista per marzo.

La fonte resta illustre.

E confidiamo lo sarà pure il lavoro.

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[1] O un qualche altro nome femminile tedesco inviso alla memoria e propenso all’abbreviazione.

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