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Recensione/Django Unchained

di Andrea Viola

«Penso che siate un pessimo perdente.»
«E io penso che siate un infimo vincente.»

Bisognerebbe scrivere un’enciclopedia sulle frasi che permeano le opere di Tarantino. Un libro, sicuramente, non basterebbe.
Django Unchained è finalmente realtà anche qui in Italia, in tutti i suoi 165 minuti che potremmo definire una quint’essenza di quel cinema irriverente, citazionista, violento, forse logorroico ma sempre irresistibile che rappresenta il marchio di fabbrica del Re del postmoderno cinematografico.
Un’eredità pesante, quella del premio Oscar Jamie Foxx: raccogliere il testimone di quel Franco Nero che, nel lontano 1966, cavalcava tra la polvere e la desolazione del Far West indossando i panni di Django, un nome  che in più di 40 anni di cinema è diventato una sorta di feticcio nel mondo dello spaghetti-western ma che, solo in pochissimi, hanno avuto il fegato di riproporre ufficialmente.
Non che Django Unchained voglia essere un sequel del capolavoro di Corbucci: la storia, in fondo, è ben diversa. Due anni prima dello scoppio della Guerra Civile, “da qualche parte in Texas”, si svolge la vicenda che vede coinvolto Django, uno schiavo di colore liberato da un cacciatore di taglie tedesco, il dott. Schultz. Django è una specie di passepartout per l’uccisione dei fratelli Brittle, tre fuorilegge di cui Schultz è sulle tracce da tempo e di cui vuole i corpi, vivi o morti. Django però ha un unico obiettivo: ritrovare e liberare la moglie Broomhilda, costretta a lavorare come schiava nell’immensa piantagione della residenza di Candyland, nel Mississippi.
Tra la terra, il sudore e la polvere da sparo, tra la schioccata di una frusta e gli schizzi di sangue che, all’improvviso, macchiano i desolati paesaggi del film, si consuma la vendetta di Django, un eroe la cui crescita, nel corso della storia, è tangibile e non necessita nemmeno di troppe parole da parte sua. In un mondo come quello dipinto da Tarantino, fatto di gentiluomini apparentemente distinti, eleganti, attenti all’etichetta, capaci di recitare la parte e conversare amabilmente ma pronti, tutto d’un tratto, a trasformarsi in cinici e spietati assassini, liberando i più infimi istinti primordiali, Django si trasforma da schiavo a vera e propria leggenda del West.
Oltre alla solita ottima regia, alla sceneggiatura da urlo (che, forse, gli varrà anche un premio agli imminenti Oscar) e a dialoghi ancora una volta capaci di diventare cult, il cocktail che ci propone Tarantino è di quelli che non si dimenticano: immagini, parole, musica, tutto è perfettamente amalgamato. La splendida fotografia di Richardson è la cornice di una colonna sonora che si rifiuta di accompagnare il film, tutt’altro, ne vuole essere comprimaria perfetta a guidare il cast stellare in ogni momento della pellicola, dalle lunghe  cavalcate in interminabili lande desolate alle folli sparatorie in cui lo splatter tipicamente tarantiniano raggiunge il suo apice.
E il film prosegue impeccabile e risolto, esibendo un equilibrio maturo tra gli ingredienti principali senza rinunciare a tocchi di originalità – che siano occhiali da sole o l’arte di spillare la birra, elementi non ancora arrivati in America o nemmeno esistenti all’epoca in cui è ambientato il film – o di citazionismo, come il cavallo chiamato Fritz che all’udito del  nome nitrisce come la Frau Blücher di Frankenstein Junior. Oppure di auto-citazionismo, come il geniale Christoph Waltz trovatosi di nuovo ad indossare i panni di un tedesco proprio come in Bastardi senza gloria (un tedesco che però  questa volta, oltre ad essere dalla parte dei buoni, invece di amare i dolci li detesta).
Un Django contro il razzismo, quello di Tarantino, determinato però a distaccarsi fortemente da quel modo, tutto Hollywoodiano, di rappresentarne il tema in maniera un po’ romantica e idealizzata: «In America non credono che i bianchi possano realizzare un film sul razzismo con gli occhi di un nero. Io ho ribaltato questo concetto e ho messo il ‘cappello’ di Franco Nero su Jamie Foxx».
Così parlò Tarantino. E il suo spaghetti-western, nel momento in cui il Django del presente (Jamie Foxx) e quello del passato (Franco Nero) si passano il testimone con una battuta proprio sul nome che, in fondo, li accumuna, è già leggenda.

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