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Recensione – Vita di Pi

di Silvia Piccone

Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?  Era il misterioso titolo di uno dei più grandi dipinti di fine Ottocento nato dai dubbi esistenziali di un maestro a Tahiti, sofferente e quasi suicida quale fu l’immenso Gauguin.
Le domande profonde racchiuse nei tratti e nei colori grotteschi di un testamento spirituale così intenso, sono le stesse che spingono il piccolo Pi, curioso personaggio dell’ultimo film di Ang Lee che ne racconta le fantastiche avventure, a non accontentarsi di risposte superficiali sul mondo, ad approfondire le più disparate religioni studiandole, scoprendone i limiti, oltrepassandoli e considerandole, forse saggiamente, tutte espressioni diverse di un unico infinito amore divino.
Questo e molto di più è Vita di Pi, capolavoro neo-pluripremiato agli Oscar 2013: riflessione spirituale di un regista discreto recante in sé il dono della delicatezza – espressa, in questo caso, negli scenari paradisiaci ma allo stesso tempo spaventosi, se soggetti al sublime della natura mossa dall’ira divina, in scene e ambientazioni tanto affascianti quanto tristemente digitali.
Dopo un inizio colorato, ambientato in India e fortemente localizzato nelle atmosfere tipiche di villaggi speziati, sari preziosi, musiche e danze come preghiere, si esprime il vero trionfo digitale che è valso al film, tra tutti, anche il premio per i migliori effetti speciali: il naufragio, le onde e la tragica morte della famiglia di Pi che su una nave giapponese, insieme agli animali dello zoo che gestiva, dall’India era diretta in Canada.
Si salva solo Pi, splendido protagonista dal nome curioso di una piscina parigina, a bordo di una scialuppa su cui approdano anche pochi altri animali, destinati – fatta eccezione per Richard Parker, la tigre del Bengala quasi interamente digitale co-protagonista del film – a rimanere vittime di se stessi e della catena naturalmente alimentare di cui drammaticamente fanno parte. Nel nulla oceanico delle proprie giornate naufragate, Pi inizia a tenere un diario di bordo in cui annota, tra le altre cose, l’evoluzione del suo rapporto con l’amica selvaggia che di notte lo tiene sveglio ed all’erta provocandogli infiniti turbamenti e paure fino a diventare l’unico vero scopo della sua vita.
Ma se il piano narrativo potrebbe sembrare particolarmente semplice in sé, al massimo costellato di parentesi fantastiche ai limiti tra sogno e realtà come la pioggia di pesci improvvisa, biblica manifestazione di un dio tanto potente quanto crudele, o l’approdo su un’isola carnivora che di giorno tutto offre e di notte tutto toglie, il livello filosofico-metafisico della narrazione si rivela assai più complesso e trova la sua risoluzione nel dialogo finale tra il Pi adulto e lo scrittore.

 

Un finale che lascia nel dubbio, un dubbio che come il saggio Pi insegna, è l’unica spinta utile a tener viva una fede veramente salda: come può un dio voler sacrificare il proprio figlio per amore degli altri uomini?

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