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Recensione – Quasi Amici – Intouchables

 

di Federica Mordini

 

Procede a passo spedito lo spogliarello della Settima Arte, che smette le vesti drappeggiate e floreali da musa centenaria per lasciar spazio ad un outfit decisamente commerciale. Ancora una volta il cinema ammicca allo spettatore come un ambulante navigato e abile nell’arte di abbindolare il cliente, cercando di vendergli non tanto una primizia stilistica, quanto contenutistica.

Non è una novità che l’industria cinematografica moderna brami boxoffice stellari, scelta, questa, che spesso porta a sacrificare la qualità di regia e trama, per puntare l’occhio di bue su personaggi e battute ad effetto. “Quasi Amici – Intouchables” di Nakache e Toledano rappresenta un ottimo esempio di questa tendenza e dimostra come, a volte, questa scelta sia quella vincente, non solo al botteghino (Il film è stato campione di incassi in Francia, n.d.r) ma anche nell’animo del pubblico.

Lo spettatore si intrufola nella vita di Driss (Omar Sy), il classico ragazzo di colore della periferia parigina dal fare galeotto e guascone, che vive del sussidio di disoccupazione statale, nella sua inaspettata avventura: prendersi cura di Philippe (François Cluzet), un nobile miliardario  rimasto tetraplegico in seguito ad un incidente in parapendio. Inutile specificare che l’attrito tra le due civiltà si rivela rumoroso e totalmente “Politically Scorrect”. Ma è proprio qui che i due registi giocano la loro carta vincente: lo scoppiettante binomio personaggi-dialoghi permette al film di riscattarsi dall’apparente mediocrità, offrendo spunti di riflessione su più fronti. Il rapporto ancora primordiale tra il disabile e la società, infatti, lascia spazio anche ad altre tematiche.

Lungi dall’esaurirsi sul piano meramente fisico, l’handicap del miliardario si dipana anche nel sociale, subendo l’irraggiungibile equilibrio tra la mancanza di rispetto e l’eccessiva pietà. L’ alternanza fra analogie e differenze che accomunano e dividono i due protagonisti induce ad un ulteriore momento di raccoglimento. Malgrado l’enorme distanza tra la realtà opulenta che circonda Philippe e la miseria in cui sguazza Driss, i due si ritrovano emarginati dalla società a cui appartengono e, al tempo stesso, in asincronia con essa e i suoi valori, troppo borghesi e ipocriti perfino per il nobile blasonato.

Proprio questa coincidenza costituisce il nesso tra la Francia benestante, civilizzata e traboccante ipocrisia dei bianchi e la Francia dei ghetti popolata dalla cosiddetta “terza generazione” di immigrati. A questo punto il dubbio sorge spontaneo: la convivenza pacifica tra i due mondi può portare a qualcosa di buono? La risposta di “Quasi Amici” è “Oui!”. Sembra quasi che sia proprio il mondo pulsante e dal destino inesorabilmente marchiato dei quartieri malfamati a rappresentare l’ancora di salvezza per quella borghesia imbellettata e complicata come un quadro di arte moderna.

Nonostante una regia ordinaria e il solito soggetto “strappalacrime”, la pellicola ci offre un momento di riflessione reso irresistibile da personaggi che conquistano e battute talmente forti da indurre ad ingerire una dose massiccia di bicarbonato per una corretta digestione. Un’altra vita e un’altra amicizia sono possibili grazie alla complementarietà di due mondi opposti, questa sembra essere la morale buonista che Nikache e Toledano cercano di lanciare. Di sicuro non manca lo spirito e neanche il discreto fiuto per gli affari: il fatto che la storia sia ispirata a vicende realmente accadute, infatti, dà un’altra piega alla pellicola, almeno dal punto di vista commerciale e induce a domandarsi se è ancora possibile parlare di sensibilizzazione al cinema.

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