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Recensione – Gli amanti passeggeri

di Andrea Viola

Dai grandi maestri ci si aspetta sempre il capolavoro che lasci a bocca aperta. A volte però, anche a loro è concesso di voler semplicemente divertirsi e far divertire. Così, senza grosse pretese.
Sembra il caso dell’ultima opera di Almodovar Gli amanti passeggeri, ritorno dell’enfant terrible del cinema spagnolo alla follia, alla sregolatezza, a quell’allegro chiasso – apparentemente privo di ogni logica e razionalità – che ha marchiato i suoi anni ’80, così permeati da quell’espressività e da quella voglia di trasgredire a tutti i costi che portava con sé la movida post-franchista.
Tutto si svolge all’interno di un aereo della compagnia iberica “La Peninsula”, diretto in Messico. A bordo, in economy, decine di passeggeri schiacciati come sardine, separati giusto da una tendina dai pochi privilegiati, che comodamente siedono sulle lussuose poltrone della business. L’aereo spicca il volo ma ben presto emerge un problema tecnico ad uno dei carrelli: scatta l’emergenza, l’aereo deve atterrare ma, in attesa di trovare una pista libera per effettuare l’atterraggio d’emergenza; il velivolo è costretto a girare a vuoto intorno all’orbita di Toledo. E i passeggeri si trovano improvvisamente di fronte allo spettro della morte.
Raccontata così, la trama non sembra così diversa da quella di tanti “disaster-movie” che affollano la filmografia americana. In realtà fin dai primissimi fotogrammi si capisce immediatamente che il tenore è tutt’altro: i colori sgargianti rapiscono lo spettatore e lo catapultano in un’atmosfera colorata, queer, grottesca oltre ogni limite, dove il trash e l’irriverenza non sono un semplice espediente, ma unici fili conduttori che tengono insieme un mosaico di teatrini, gag, battute e situazioni ai limiti del surreale.
Eppure ciò che appare come un divertente (ma forse un po’ forzato) cabaret nasconde un’esigenza di catarsi: una purificazione da quella durezza introspettiva, arrivata al suo apice con il dramma La pelle che abito, ma anche una risposta alla decadenza odierna  a suon di tequila, sesso ad alta quota e droghe nascoste in parti del corpo non proprio raccomandabili.
Nella business del volo Peninsula 2549 ci si inebria, ci si disorienta, si distorce la realtà al punto da non distinguere più ciò che è vero da ciò che la mente ci lascia credere, fino a raggiungere l’apice in una sorta di amplesso collettivo oltre il quale non resta altro che tentare l’atterraggio ed affrontare la realtà, nella speranza che l’impatto non sia troppo forte.
I protagonisti di questo turbinio di sensazioni fisiche, in cui la tensione erotica più o meno esplicita è sbattuta in faccia allo spettatore senza tanti complimenti, cercano di affrontare come possono ansie, conti in sospeso e desideri non soddisfatti, attraverso la cornetta di un telefono che sembra essere rimasto l’ultimo legame con la terra ferma e la vita di tutti i giorni. Appena una tendina a separarli dagli ignari passeggeri dell’economy che, sotto effetto di rilassanti muscolari, dormono sonni profondi, inconsapevoli del fatto che la loro vita è nelle mani di soggetti dediti a darsi alla pazza gioia piuttosto che a gestire responsabilmente una situazione di così grave emergenza.
Almodovar si beffa, in definitiva, di una classe politica allo sbando: lo fa in chiave anarchica e caleidoscopica, mettendo insieme nuovi volti del cinema spagnolo con “feticci” irrinunciabili delle sue opere storiche. Ma soprattutto Almodovar si diverte: la coreografia sulle note di I’m so excited delle Pointer Sisters è solo il momento più esilarante di una pellicola da prendere così com’è. Kitch, delirante, forse scevra di una solida struttura portante – come sono stati alcuni capolavori del passato. Forse colpevole di dipingere con inaspettata superficialità alcune anime e volti della storia, eppure così semplicemente arguta e divertente.
In fondo, ogni tanto, può bastare anche solo questo no?

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