Attualità

Quando la mafia si fa schermo

«Dopo l’omicidio di Boris Giuliano a Palermo cambiò tutto, vedevamo la gente morire ogni giorno. Totò Riina aveva deciso di conquistare la nostra città e, pur di prendersela, era pronto a sterminare tutti, anche i clan rivali. Per la prima volta i boss mafiosi palermitani avevano paura.»

Il protagonista de La mafia uccide solo d’estate, Arturo, racconta così l’inizio di un capitolo fondamentale del nostro Paese: la guerra di mafia tra clan e l’egemonia dei Corleonesi.

Il 17 novembre con la morte di Totò Riina, simbolo della mafia in tutto il mondo, questo capitolo potrebbe dirsi concluso. Ma non è così.

L’ultima comunicazione forte di Cosa Nostra è avvenuta attraverso la televisione, con l’intervista di Bruno Vespa a Salvo Riina, figlio di Totò, il 6 aprile 2016.

Come ha spiegato Roberto Saviano, nella trasmissione Che tempo che fa, quando un mafioso va in tv vuole lanciare un messaggio, nonostante i rischi. L’esposizione mediatica infatti è sempre un pericolo sia per l’organizzazione, sia per la singola persona, perché si attira l’attenzione e la pressione dell’opinione pubblica.

Il primo messaggio che Salvo Riina aveva messo in chiaro era che non stava parlando da capo famiglia, non si stava sostituendo al padre. Tutte le volte che Vespa lo aveva invitato ad esprimere una sua opinione non rispondeva, ma diceva sempre che bisognava parlare con il padre. Ma l’opinione che gli veniva chiesta era la sua. Nella logica mafiosa dare una propria opinione significa avere lo scettro del comando, sostituirsi al potere.

Salvo Riina durante l’intervista aveva fatto anche un’apologia della famiglia parlando di come era unita. Ma nella sintassi mafiosa si riferiva ai valori della vecchia Cosa Nostra rappresentata da suo padre, dai Corleonesi e dalla famiglia Riina. Unità che contrapponeva alla nuova Cosa Nostra, considerata priva di quei principi e di quella struttura di rigore e disciplina.

L’intervista al figlio del “capo dei capi” aveva creato scalpore, la mafia stava mandando un messaggio, ma forse non l’avevamo capito. Come diceva Montaigne “la parola è per metà di chi parla e per metà di chi ascolta” e noi, la società civile, non siamo stati in grado di raccogliere la nostra metà di parola.

Era stato un caso eccezionale, i mafiosi infatti cercano in ogni modo di evitare la stampa, la televisione, per non destare attenzione; nonostante questo la figura di Riina e la struttura delle organizzazioni mafiose sono state oggetto di tanti film.

Alcuni come Gomorra hanno avuto l’obiettivo di creare consapevolezza, far conoscere la realtà mafiosa; altri invece come I cento passi, che racconta la storia di Peppino Impastato, sono stati dedicati al ricordo di chi ha resistito e si è opposto al crimine; altri ancora come Il Padrino, la serie I Soprano o Scarface hanno contribuito invece a creare il mito delle organizzazioni e dei boss.

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Nel film La mafia uccide solo d’estate di Pierfranesco Diliberto (in arte Pif) i boss sono tratteggiati con ironia. Don Vito Ciancimino e Totò Riina vengono derisi, ridicolizzati. Riina, soprannominato U Curtu, per via della bassa statura, ad esempio non riesce a pronunciare la parola “gratitudine”. Pif cerca di abbattere tutti i luoghi comuni, gli stereotipi, in modo da farli scendere dal piedistallo del grande crimine organizzato.

Un’operazione cinematografica diversa dal solito dato che molti film hanno aiutato i boss a inventare modelli a cui adeguarsi, a trovare una grammatica più comune a tutti cheriuscisse a condizionare il nostro modo di vederli.

Il romanzo Il padrino di Mario Puzo del 1966, ma soprattutto il film di Francis Ford Coppola del 1972, attraverso Cosa Nostra tentano di spiegare l’etnicità, la cultura e l’identità italiana negli Stati Uniti. Il capo Don Vito Corleone (interpretato da Marlon Brando), a cui Riina spesso veniva paragonato, viene mitizzato, dotato di sguardi misteriosi e “mafiosi”, circondato da fumo, donne, vestito bene, pieno di gioielli e anelli al dito.

il padrino

Il boss Luciano Liggio, mentore di Riina e Provenzano, nelle sue apparizioni ai processi iniziò ad assumere degli atteggiamenti molto simili a quelli di Brando e i mafiosi si fecero così chiamare con l’appellativo di padrino, parola che, prima del film, non era mai stata utilizzata.

Nel film Scarface del 1983 Al Pacino interpreta Tony Montana e anche in questo questo personaggio c’è l’idea del denaro facile e del successo: «In questo Paese, devi fare la grana prima. E quando hai fatto la grana, c’hai il potere. E quando hai il potere, c’hai pure le donne. È per questo che bisogna muoversi.»

I boss hanno assorbito questi comportamenti, hanno appoggiato questa montatura che il cinema ha creato per loro, in modo da fomentare il loro mito e affiliare i giovani all’interno delle organizzazioni. L’età media nelle mafie infatti è bassissima. Forse non è utile parlare di legalità e giustizia ma bisognerebbe far capire ai ragazzi del Sud, che vedono le organizzazioni come una strada per far successo, che la realtà è ben diversa. Secondo la Procura Nazionale Antimafia, la mafia è la prima impresa in Italia e fattura 100 miliardi di euro all’anno, ma chi lavora all’interno delle organizzazioni questo denaro non lo vede mai, perché viene sempre reinvestito e quindi il profitto diventa quasi “metafisico”.

I boss in alcuni momenti mostrano la Ferrari, si fidanzano con la bellissima del paese perché tutto questo fa da “ufficio stampa”, come nei film appunto, ma poi devono scomparire e vivere decenni in latitanza e decenni in cella «con l’unico scopo di comandare e di gestire– come diceva Raffaele Cutolo- la vita e la morte di tutti.» Nei ristoranti in cui investono non ci entrano mai. Le donne che sono state amanti diventano informatrici. Lavorano tutta la settimana compresi sabato e domenica, non ci sono Natali e nessun tipo di ferie. Vedono i propri figli tre volte l’anno. Riina rivide suo figlio dopo 10 anni e Paolo Di Lauro dopo 15.

Diventare boss non è semplice: il capo deve essere uno che ammazza e che ha capacità economica, deve saper parlare con politici, imprenditori, e uomini che contano. E spesso i politici con cui fa affari dopo pochi mesi tradiscono. Il carcere è durissimo, in 41 bis si è chiusi in una cella e osservati da una guardia 24 ore su 24, vengono censurati i libri, i programmi televisivi, i giornali. Gli incontri con i familiari avvengono attraverso un vetro al citofono e tutto ciò che si dice viene registrato.

È una realtà ben diversa da quella cinematografica: lo stereotipo del boss ricco, circondato da donne, che conduce una vita di lusso è falso. Conoscere il male e comprenderlo sono le prime armi per difendersi da esso.

La mafia non muore con il padrino di Corleone, altri pezzi di Cosa Nostra potranno prendere il suo posto e continuare il suo progetto imparando soprattutto dagli errori, ma come insegna Falcone, la mafia è un fenomeno umano. Per questo ha avuto un inizio e, come in tutti i film, si arriverà alla parola fine ben illuminata sullo schermo ma, questa volta, senza titoli di coda.

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