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Piazza Fontana: la poesia non dimentica

Venerdì 12 dicembre 1969, ore 16.37. Nella Banca Nazionale dell’Agricoltura, con sede in Piazza Fontana a Milano, esplode un ordigno che provoca diciassette morti e quasi novanta feriti. Iniziano così gli anni di piombo. Insieme alla bomba scoppiata a Milano ne deflagrano altre tre a Roma. Una alla Banca Nazionale del Lavoro, una davanti all’Altare della Patria e un’ultima al Museo del Risorgimento. Bastano pochi minuti per dare avvio alla “strategia della tensione”, con l’obiettivo di far sprofondare il Paese in un clima di paura e irrequietezza.

A Milano, la Banca Nazionale dell’Agricoltura è affollata. Si riuniscono coltivatori diretti, allevatori e imprenditori provenienti da tutta la provincia per “discutere i loro affari commerciali e attendere al compimento delle azioni bancarie presso gli sportelli”, come si evince dai documenti processuali. Non a caso, l’ordigno viene posizionato proprio nel salone destinato ai clienti.

Crediti: Archivio Publifoto Intesa Sanpaolo

Il Paese è sconvolto. Tra gli innumerevoli articoli, documenti e fotografie che riempiono le prime pagine dei giornali, un’altra voce si fa strada: la poesia.  Subito dopo la strage, tra il 13 e il 14 dicembre, Pier Paolo Pasolini compone i duecentosettantasette versi di Patmos, dando sfogo al bisogno di misurarsi con una catastrofe di tale portata, di esternare il suo orrore. Il titolo del componimento è ispirato al nome dell’isola greca dalla quale l’apostolo Giovanni scrive l’ultimo libro della Bibbia, l’Apocalisse.

Sono sotto choc
è giunto fino a Patmos sentore
di ciò che annusano i cappellani
i morti erano tutti dai cinquanta ai settanta
la mia età fra pochi anni, rivelazione di Gesù Cristo
che Dio, per istruire i suoi servi
– sulle cose che devono ben presto accadere –
ha fatto conoscere per mezzo del suo Angelo
al proprio servo Giovanni. […]

Transumanar e organizzar, Garzanti – 1971

Il componimento, che sarà poi raccolto nel volume Transumanar e organizzar (Garzanti, 1971), è articolato in tre voci: l’apostolo Giovanni, l’intellettuale Pasolini e la cronaca dei fatti di Piazza Fontana; ne risulta una narrazione ambigua, come frantumata anch’essa dal tritolo, ridotta a brandelli di comunicazione.

Pasolini, poeta civile, non si arrende all’asettico elenco delle vittime che viene proposto dai giornali, ma le chiama per nome e cognome, aspettandosi in risposta un ultimo grido vitale: “presente!”

[…] Pietro Dendena (presente!) 45 anni,
abitava a Lodi in un nuovo edificio di Via Italia 11
con la moglie Luisa Corbellini, la figlia Franca, 17 anni,
che frequenta il corso di segretariato d’azienda,
e il figlio Paolo, 10 anni, alunno di quinta elementare.
Di professione mediatore,
frequentava regolarmente il mercato di Piazza Fontana
non mi meraviglierei da letterato schizoide
che comparisse tale e quale in un olio del Prado
né che avesse un debole per l’Inter; […]

Crediti: Archivio Casa della Cultura

Le indagini si orientarono da subito sulla cosiddetta “pista anarchica”, portando a una serie di fermi principalmente nei circoli “Ponte della Ghisolfa” di Milano e “22 Marzo” di Roma.

Al primo appartiene Giuseppe (Pino) Pinelli, ferroviere anarchico ed ex partigiano, che viene immediatamente condotto in questura, in circostanze mai del tutto chiarite, come testimone dei fatti. L’estenuante interrogatorio, gestito dal commissario Luigi Calabresi, dura circa tre giorni; il 15 dicembre, appena dopo la mezzanotte, Pinelli muore cadendo dalla finestra dell’ufficio del commissario, al quarto piano dell’edificio. Secondo la versione ufficiale, riportata dal questore di Milano Marcello Guida in conferenza stampa, Pinelli si sarebbe suicidato dopo aver saputo che il suo alibi era caduto, e quindi avrebbe compiuto “un balzo felino verso la finestra che per il caldo era stata lasciata socchiusa e si è lanciato nel vuoto”: queste sono le parole che il commissario riferisce alla stampa.  Devono passare sei anni per attestare l’innocenza di Pinelli, ma la magistratura si limita ugualmente a derubricare come “malore attivo” la causa della caduta del ferroviere.

Giovanni Raboni si concentra proprio sulla morte di Pinelli nella sequenza L’alibi del morto, dedicata alla strage di Piazza Fontana, e pubblicata sulla rivista Nuovi Argomenti nel 1970. 

Giuda dice che l’alibi del morto
era crollato: per questo il morto è sceso nel cortile.
Ma l’alibi era buono; il morto è riabilitato:
nessuno dice che Giuda aveva torto.

Il perito settore dice che le ferite
non sono incompatibili con la meccanica di
una caduta dall’alto. Il giornale conclude
che dunque il morto si è suicidato. […]

Raboni scrive questi versi subito dopo il funerale di Pinelli, a cui partecipa insieme a Franco Fortini e Vittorio Sereni; c’è poca gente, riferisce il poeta in un’intervista a Concetta Di Franza, più poliziotti che cittadini comuni.

Che sia lo stesso poeta a dichiarare l’occasione di questo testo non è un fattore secondario in Raboni: qui è il poeta in prima persona a prendere la parola, per marcare la sua posizione assumendosene la piena responsabilità. Il registro sarcastico delle quartine colpisce i rappresentanti dello Stato: primo su tutti il questore Guida, che appare nel testo come allegoria del male, trasfigurato nel cupo anagramma “Giuda”.

Al circolo “22 Marzo” appartiene Pietro Valpreda, ex ballerino anarchico, fermato e arrestato il giorno dopo la morte di Pinelli. Valpreda sembrerebbe “incastrato” dalla testimonianza di un tassista, che sostiene di aver condotto il giorno della strage un uomo molto simile a lui fino alla Banca Nazionale dell’Agricoltura.  Nonostante le incongruenze che minano la versione del tassista, a partire dai dubbi sull’effettivo riconoscimento di Valpreda fino al tragitto di soli cento metri percorso sulla vettura, l’anarchico sconta oltre mille giorni di carcere, per essere poi liberato nel 1972 grazie a una legge ad personam; l’assoluzione definitiva arriva solo nel 1987.

Durante gli anni di reclusione, Valpreda scrive lettere e poesie, raccolte rispettivamente nei volumi Lettere dal carcere del sistema e Poesie dal carcere.

[…] Se nella mente
vi sorge un solo sospetto d’innocenza,

fate che sia lui
a emetter la sentenza.

Lo scrisse anni or sono
Cesare Beccaria,
«meglio cento colpevoli liberi

purché un innocente in galera non stia»

So che soltanto
mi crederete
quando sgorgar dalle vene
il mio sangue vedrete.

l denaro e la morte

son le poche verità

in cui ancora crede

questa società.

Nel frattempo si apre una nuova area d’indagine, l’eversione neofascista: si scopre l’esistenza di un nucleo di estremisti che orbitano introno al movimento “Ordine Nuovo”. Tra le figure chiave ci sono Franco Freda e Giovanni Ventura, a cui, nel 2005, viene attribuita la responsabilità dei fatti da parte della Cassazione. Paradossalmente, i due non possono essere condannati nonostante siano ritenuti colpevoli, in quanto già assolti nel 1987 per lo stesso reato, a causa dell’insufficienza di prove.

Questa odissea processuale e giudiziaria si conclude così, dopo trentasei anni e dieci processi, senza colpevoli “dichiarati”. Infinite sono le contraddizioni tra la verità storica e quella giudiziaria. Ma sull’ombra che ancora oggi avvolge molti aspetti di questa tragica vicenda, la poesia, con la purezza che le è propria, dà voce al grido rimasto inascoltato delle vittime. 

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