Come affrontare il Natale, anche se si è avari
Luci, candele, addobbi, alberi e ghirlande, pacchetti e scricchiolii intriganti di carte colorate; auguri, vacanze, panettoni e canditi, canti e poesie, candidi e soffici fiocchi di neve, danzanti sul palcoscenico di cieli ovattati, che nella loro misteriosa vastità ne racchiudono la purezza, lasciandoli a poco a poco discendere, al ritmo di lievi manciate; comignoli fumanti e famiglie congiunte dinnanzi a fuochi scoppiettanti, a godere del rassicurante e confortevole tepore domestico; entourage di parenti riuniti attorno a tavoli imbanditi, felici di condividere un pasto sostanzioso nella materia, ma soprattutto nel valore simbolico di ogni sua portata, allegoria di gioia, fratellanza, riconciliazione, bontà e pace; “parate” di Rosso e Verde, che, quasi secondo la consuetudine di antichi cortei trionfali, celebrano il loro tripudio, invadendo case, strade, negozi, ergendosi a rievocare non più esclusivamente il nostro tricolore nazionale, bensì un’atmosfera inconfondibile, sprigionantesi, in maniera totalizzante, dal magico scrigno del Natale. Questi gli ingredienti che usualmente la tradizione congiunge e affianca nella creazione del quadro di tale festività religiosa e che riscontriamo, conseguentemente, in tanti prodotti letterari, cinematografici, artistici, teatrali…
Portavoce rappresentativo di queste istanze e popolare divulgatore delle consuetudini natalizie, nato, come esplicitamente chiarisce una delle molteplici varianti del titolo stesso dell’opera, con la finalità di farsene narratore, risulta il celebre “Canto di Natale” dello scrittore inglese, ottocentesco, Charles Dickens (1812-1870), pubblicato nel 1843. Sotto forma di breve racconto fantastico, l’opera, articolata in cinque parti e ambientata nella notte di Natale, si concilia pienamente con il clima dell’età vittoriana e con i suoi interessi volti all’analisi di problematiche sociali e civili, derivanti da poliedrici fenomeni, quali il vertiginoso sviluppo tecnologico ed industriale affrontato dalla nazione inglese nel corso del XIX secolo, l’affermazione della borghesia e la parallela nascita di una classe proletaria spesso ridotta a condizioni di vita e di lavoro disumane e impietose, il conseguente e ingente spostamento di masse popolari verso centri urbani, dove la principale prospettiva di abitazione era fornita da quartieri (i cosiddetti “slums”) degradati e sovraffollati. Dopo aver sperimentato in prima persona, in età infantile, la durezza e l’asperità del lavoro in fabbrica, occupazione diffusa e abituale tra le classi operaie e subalterne, e aver maturato una profonda e acuta consapevolezza circa la situazione in cui versavano queste ultime, Dickens manifesta grande sensibilità e capacità di immedesimazione verso gli umili e le sfere più basse e marginali del consorzio sociale: poveri, infermi, orfani, spazzacamini, operai, piccoli abitanti delle “workhouses” (case-lavoro adibite, in cambio di un tetto e di un misero sostentamento alimentare, ad uno spropositato sfruttamento di lavoro minorile e femminile), divengono i protagonisti assoluti delle sue produzioni letterarie e dei suoi romanzi, i quali, in una commistione di sentimentalismo e humour, riassorbono in parte il modello settecentesco del “romanzo di formazione”, con la sua attenzione volta alla società, concepita come insieme di rapporti e di regole condivise, e all’individuo, suo nucleo basilare e costitutivo.
L’individuo in questione, per quanto concerne il caso specifico di “A Christmas Carol”, risulta un anziano signore, Scrooge, ricco e avaro, abituato a vivere volontariamente in solitudine, rifiutando ogni tipo di legame e rapporto affettivo, il quale incarna il prototipo dell’individuo borghese, avidamente attaccato al denaro, e dei suoi valori, improntati al guadagno e al possesso di beni materiali. Attraverso la visita immaginaria di tre spiriti, rispettivamente del Natale passato, presente e futuro, si attua, durante lo svolgimento della vicenda, la “catarsi” del protagonista, il quale, soltanto mediante un’osservazione oggettiva ed “estraniata” delle varie tappe del suo percorso esistenziale, giungerà infine alla comprensione degli errori commessi e alla capacità di cambiare radicalmente chiave di lettura e codice di valori con i quali approcciarsi alla vita. Particolarmente pregna di significato e suggestione risulta, durante la visita dello spirito del presente, la visione della casa dell’umile dipendente di Scrooge, Bob Cratchit, e del piccolo figlio storpio di quest’ultimo, Tim: nonostante l’estrema povertà e difficoltà economica nella quale versa la numerosa famiglia colpiscono la dolcezza e amorevolezza mostrata da ciascun membro, l’altruismo e la coesione interna, punti di forza inestimabili del nucleo familiare. Risalta in tal modo il confronto-scontro tra due tipologie di ricchezza differenti e complementari, materiale ed esteriore la prima, morale e interiore la seconda, incarnate rispettivamente da Scrooge e dai personaggi qui incontrati, compiendo un primo passo in direzione di una possibile conciliazione ed un sano equilibrio tra le due. Dickens sceglie di servirsi di una festività religiosa, quale la celebrazione della Natività, e del messaggio caritativo ad essa connaturato, quale occasione ottimale per un’attuazione concreta e visibile di tali valori cristiani e di un ritorno a quello spirito evangelico autentico e originario, fondato sulla preziosa capacità di discernere la vera ricchezza e fonte di gioia da quella invece effimera ed inconsistente. A testimonianza della piena legittimità di annoverare “Canto di Natale” tra i grandi capolavori della letteratura, nonostante la brevità e apparente semplicità di contenuti, interviene l’ampia gamma di rivisitazioni e adattamenti ai più miscellanei ambiti artistici ai quali, nel corso degli anni, l’opera è stata incessantemente sottoposta: esistono oggi infatti molteplici varianti cinematografiche, oltre che teatrali e persino fumettistiche, del Racconto, rilette, a seconda delle epoche, in chiave moderna e attuale. Così si sprigiona l’immortalità e la vera essenza classica del testo, eternamente valido e in grado di interagire con il lettore di qualunque periodo storico: quelli che erano orfani, spazzacamini, proletari, lavoratori di fabbrica, abitanti suburbani e periferici, vittime della malfermità e precarietà del secolo diciannovesimo non risultano forse paragonabili, oggi, nel solco del ventunesimo secolo, a odierni migranti, braccianti, profughi e bambini africani, siriani, stranieri che continuamente giungono dai loro Paesi di guerra su barconi anch’essi malsani e antigienici, ai limiti dell’umanamente accettabile e del moralmente concepibile?
Non è forse inevitabilmente propria di ogni età l’esistenza di problematiche sociali, di contrasti civili, di ostacoli e difficoltà organizzative e legislative, di cui è lecito e anzi doveroso che anche arte e letteratura si ergano a portavoce? E non resterà forse il Natale, perennemente ed inesorabilmente, un’occorrenza confacente ed intensa per dare sfogo a filantropia e bontà verso il prossimo, per un adattamento costante dei suoi valori portanti e intrinsechi alla sfera sociale e per una loro traduzione in cambiamento concreto? Credo che Dickens abbia fornito, con il suo Canto, una risposta più che esaustiva a tali interrogativi, conseguendo una perfetta integrazione e sintesi di valori vittoriano-borghesi e cristiani, attraverso un processo dispiegantesi gradualmente da una condizione iniziale di negatività inoppugnabile sino ad un approdo conclusivo alla fede nella possibilità di redenzione individuale, alla solidità dei valori familiari, alla coscienza della ricchezza insita nella gioia autentica.