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Natural born killers: un elogio alla follia

Avete presente quel film che vi ripromettete ogni volta di vedere, che vi ritrovate periodicamente nella home di Facebook sotto forma di link e gif varie, perchè fondamentalmente considerato un cult (termine che a prescindere ve lo fa venire a noia)? Ecco, quel film era per me Natural Born Killers (1994) di Oliver Stone.

Sfruttando al volo l’occasione di un cineforum universitario ho deciso di dare per la prima volta una chance a questo famosissimo regista, che non ho mai davvero approfondito. Conoscendo però la sua nomea di cineasta militante e grande critico dell’establishment politico, tutto mi sarei aspettato dal film fuorchè quello che ho visto sullo schermo.

Raramente da spettatore mi sono sentito così visivamente “violentato” e al contempo magneticamente attratto. L’opera è un lungometraggio incredibilmente ritmato, pur nel suo essere schizofrenico e anarchico: due qualità che, solitamente, sono in contraddizione, come ci dimostrano i film montati male. Se in questi ultimi, infatti, il ritmo tende ad appiattirsi in una monotonia cacofonica e alla lunga fastidiosa, nel caso del film in questione sembra di ascoltare una folle orchestra saggiamente diretta, sicuramente pirotecnica e schizzata al massimo, ma ben consapevole di come prosegua il suo spartito. Nonostante il mescolamento costante dei piani spazio-temporali (massiccio risulta l’uso di flashback e sbalzi improvvisi), il regista riesce a costruire attraverso la ricorrenza dei principali elementi del film una narrazione intellegibile.

Stone non lascia neanche un attimo di tregua sensoriale nel narrare le vicende dei due killer-celebrità Mickey e Mallory, rispettivamente Woody Harrelson e Juliette Lewis, ancora acerbi e tuttavia ferocissimi. L’esperienza filmica diviene in tal modo un processo mentale di riconoscimento perennemente attivo, mai puramente ricettivo. Ogni cambiamento di lente, formato, luce, taglio dell’inquadratura, provoca nello spettatore una reazione e una conseguente elaborazione, spesso talmente immediata da risultare intuitiva o emotiva, come nel caso degli inserti subliminali. Parlo insomma di un ritmo claustrofobico e di un montaggio deliberatamente entropico. 

La sperimentazione radicale operata in questo film ha il sopravvento sul pur lodevole intento didascalico; dando troppo peso a quest’ultimo, e all’ovvio messaggio che ne consegue, forse non si coglie a pieno la valenza meta-cinematografica di una pellicola del genere. I singoli aspetti, non davvero innovativi, trovano nell’insieme un’espressione peculiare: un film sulla violenza dei media veicolato violentemente.

Il bersaglio principale è il giornalismo scandalistico da grande pubblico. Non sorprende la riproposizione di uno stile televisivo, con zapping feroce e con la frequentazione di format del genere, quali la situational comedy (flashback di Mallory Knox) o il servizio (a volte forse l’eco di Citizen Kane?)  eccetera. Spesso l’esasperazione porta un sapore d’avanguardia.

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Questo stile ipertrofico, tuttavia, risulta incredibilmente appropriato. Radicale, in ogni caso, rimane l’ideologia che permea tutta la pellicola, e che porta ad equiparare il killer e il giornalista (Robert Downey Jr.).  Nella storia della settima arte la figura del giornalista è stata a lungo criticata, oggetto potremmo dire di film monografici. Basti pensare al citato Quarto potere di Welles (1941), a Prima Pagina di Wilder (1974), a  Quinto Potere di Lumet (1976) ).

Per tutti questi motivi, mi sento proprio di dire che l’abusato termine cult rimane per Natural Born Killers più che mai appropriato.

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