Sport

L’uomo che si ribellò al potere

Di Stefano Sette
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La storia del calcio è piena di intrusioni politiche che cercano di utilizzare questa disciplina sportiva per il proprio tornaconto elettorale. Il caso del Milan, il cui proprietario è anche Presidente del Consiglio dei Ministri, è l’ultimo di una serie di precedenti in cui politica e sport si mescolano tra di loro. Basti ricordare che al tempo della Spagna franchista, il Real Madrid corrispondeva alla squadra supportata dal regime-Caudillo. Eppure fino agli anni’ 60 nessuno cercò di ribellarsi all’influenza della politica nel calcio.Ci provò Joao Saldanha, ex giocatore brasiliano che, terminata la carriera di atleta, diventò prima un allenatore e poi uno dei più conosciuti giornalisti sportivi sudamericani. A soli sei anni guadagnava denaro contrabbandando armi al confine tra Brasile e Paraguay e, dopo essersi trasferito da Alegrete a Rio de Janeiro, militò per qualche anno nel Partito Comunista Brasiliano (PCB). Abbandonò presto la politica per completare gli studi e per praticare prima il calcio (giocò nel Botafogo) e poi il basket. Joao non rinnegò mai le sue ideologie comuniste. Nel 1968 venne chiamato da Joao Havelange, presidente della Federcalcio brasiliana e futuro presidente della Fifa, ad allenare la nazionale in vista del Mondiale messicano del 1970. Joao vinse tutte le partite del girone di qualificazione, schierando cinque attaccanti (Pelè, Tosao, Jairzinho, Gérson e Dirceu Lopes) supportati dal centrocampista ventunenne Clodoaldo. Nel 1969 non emersero soltanto le qualità del Saldanha allenatore, ma emersero anche la personalità e il carattere del Saldanha uomo, che cercò di mantenere fino all’ultimo il proprio posto senza piegarsi al potere. Dopo una partita amichevole vinta 2-1 contro l’Inghilterra a Rio, Jaoa venne invitato a Londra dal ct inglese Alf Rasmey e, prima di visitare la capitale inglese, decise di partecipare ad una trasmissione televisiva tedesca. Ospite in studio, Joao rispose ad una domanda sul genocidio degli Indios in Amazzonia dicendo che in più di 400 anni erano stati uccisi meno Brasiliani rispetto alle persone uccise dai Tedeschi dopo dieci minuti di guerra. A Londra Jaoa replicò alla frase di Rasmey secondo cui gli Inglesi, e più in generale gli Europei, dovevano aver paura dei disonesti Sudamericani, affermando “E allora se gli Inglesi sono così onesti, a cosa si deve la fama di Scotland Yard?” Anche in patria i rapporti con il potere non furono rosei: Joao era comunista, mentre nel Paese governava una giunta militare di stampo fascista guidata prima da Artur da Costa e Silva e poi da Emìlio Garrastazu Médici. All’inizio del 1970 Médici ordinò una serie di repressioni contro i Comunisti e contro le manifestazioni dei giovani universitari. Nello stesso periodo il ministro dell’Educazione Passarinho venne a sapere che Saldanha era comunista e ordinò al generale dell’esercito Claudio Coutinho di avvisare il Presidente, che da allora cominciò a mettere pressione al ct Joao, invocando la convocazione di alcuni giocatori, in particolare del centravanti Dario (leader dell’Atletico Mineiro). Anche in quest’occasione Saldanha non si piegò e replicò al Capo di Stato, dicendo che i giocatori da convocare li sceglieva lui e che quando Médici aveva scelto i ministri del governo non aveva chiesto la sua opinione. Il 17 marzo Havelange decise di licenziare l’allenatore e, dopo aver consultato Dino Sani (ex giocatore del Milan), affidò la squadra a Mario Zagallo, che portò il Brasile alla vittoria del Mondiale messicano utilizzando il modulo dell’ex-ct. Dopo l’esonero Saldanha continuò a fare il giornalista e nel 1990 fu ingaggiato dall’emittente Rede Manchete come opinionista per Italia’90. Ma l’11 giugno, Joao morì a Roma per un malore polmonare dovuto al tabagismo. Si spense così all’età di 73 anni l’uomo che si ribellò al potere.

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