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L’anticlimax di Westworld e Frankenstein

[Avviso: l'articolo contiene spoiler, frequenti].

Di Westworld abbiamo parlato Carlo Maria Rabai ed io nell’aprile 2017, sul cartaceo #3 dedicato agli Oscar (il nostro esordio!). Carlo ne ha scritto a proposito dell’avantesto letterario, filosofico e via dicendo (In principio vi fu Isaac Asimov…), io cercando di approfondire il problema dell’origine della coscienza (nell’uomo e nel robot). Niente a che vedere, in realtà, con la modalità “recensione”, perché in sostanza aveva convinto, ecumenicamente, e forse non si sentiva il bisogno di una valutazione, piuttosto di uno scavo.

Eppure ecco gli enormi dubbi all’annuncio della seconda stagione. Cosa avrebbe narrato dopo? In che modo? Quale sarebbe stato il nuovo nucleo filosofico, il cuore prima Janesiano della sceneggiatura? Ve ne parlo, mentre mangio una pasta di grano duro con aglio, mollica, alici, olio extravergine di oliva. Piatto calabrese.

Che intreccio. Sì. Perché due sembravano le strade, l’evasione in massa con epilogo sicuramente americano ma poco costruito alla Matrix capitolo III, oppure la genialata mastodontica. Tutto o niente, senza dubbio. La vita o la morte. E invece Nolan e compagnia bella hanno di fatto oscillato fra i due poli, senza trovare una strada. L’intreccio della seconda stagione è senza dubbio a tripla frequenza, e cioè lento se non lentissimo in modo raccapricciante negli episodi 1, 3 e 8; medio (medio-borghese!) nelle puntate 2, 5 e 9; frenetico e assolutamente coerente e per di più azzeccatissimo (mi si permetta un aggettivo polare, non caratterizzante) nelle restante puntate 4, 6-7. Dal conteggio rimane fuori il season finale. Più avanti sarà chiaro il perché.

Uno dirà beh, lento non significa non riuscito, significa semplicemente indugiare su altro, rivolgersi (anche) a un tipo di pubblico differente. A parte che in questo articolo si parlerà difficilmente di scelte stilistiche (tutta la tecnica, l’artigianato è unicamente al servizio della narrazione, è un significante senza autonomia, un servo della gleba. Precisissimo, funzionale, con minimo sforzo tra l’altro), vorrei sottolineare che in realtà risulta chiaro che sì, l’effetto di lentezza è voluto, ma che lentezza è? Capisco che Bernard è androide centenario ma mica deve avere i riflessi di mio nonno? Il suo repertorio facciale consta di due espressioni: terrore moderato e moderato nonc’hocapitouncazzo, quasi un’ecolalia da bambino appena nato, però espressiva (visiva quindi, e non uditiva. Di voce ne usa una sola. Non urla, non piange, al massimo supplica – please è tipo modafacca per Samuel L. Jackson, però non fa ridere). E visto che metà della narrazione sta sulle sue spalle…

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Lentezza, dicevo. A parte l’ironia spicciola: le puntate della prima categoria (lentissime in modo raccapricciante) è vero: servono da ricongiungimento. La stagione uno è il genitore da cui si ritorna dopo un lungo viaggio, o la sposa che aspetta al molo…, ci sono quelle cose che bisogna raccontare e senza le quali niente può essere detto, nessun gesto esercitato. Allora sia (anche se un’intera puntata recitata da un indiano cosciente, ma forse a metà, a una bambina appena rapita, che in realtà è il medium a distanza per la madre coi superpoteri mezza squartata su un letto un po’ scomodo, mi sembra un po’ trash, un po’ retro, un po’ tutto). E siano anche le medio-borghesi, nel senso che non te le puoi levare assolutamente dalle p**** perché sono necessarie, sono gli anelli dell’economia (narrativa). Anche perché alcuni (come l’episodio di Maeve nel paese dei Giappo) sono una vera immersione in generi molto lontani e ben orchestrati, col tema del malfunzionamento che è anche del congegno narrativo, un ricorso continuo e un tentativo di rimettere in carreggiata molto precisi.

Progetto senza titoloE benvenutissime le terze, direi vette del genere: che bellezza la 2×4, con l’eternità di Delos. Per due ragioni imprescindibile: narrativamente; perché la ciclicità del tempo diegetico (di una sua strada, con incendio finale a cancellare…) svolgono la funzione di tracciare (come il solco di un vinile) e permettere che le variazioni minime, i dettagli, gli avanzamenti pure di mezze misure risultino percepibili, e che tutto (sempre avventura) diventi tragedia umana. E perché in gioco non c’è più il robot, ma l’uomo, quello di Shelley, solo che i pezzi non sono di cadaveri ma i brandelli che rimangono dai ricordi, e ricostruiscono il corpo no, ma solo la coscienza (che cosa si intenda per questo, in realtà, non può dirsi), tant’è che il deterioramento è Leitmotiv. Un passo indietro d’intensità nella 2×5, pure esordiente sul riconoscimento di un demiurgo di secondo grado, Dolores, già cosciente ben prima (forse però forzatamente) della precedente stagione, in una contro-storia che ha il sapore del passato irrealizzato. E il finale (aspettatissimo) con sospiro di sollievo perché buona parte della riuscita della prima stagione ruotava attorno al magistero di Hopkins. Grazie al cielo. E poi la settima che superficialmente riassumo nell’esplosione della bellissima Talulah Riley, ma che approfondisce il nuovo centro ontologico della serie e soprattutto fa intersecare per un momento tutte le linee narrative.

Sì, perché preoccupava che, esaurito il tema della coscienza nei robot o cosa sono, i creatori non riuscissero a slittare a dovere, insomma a trovare un nuovo centro attorno al quale far orbitare la sceneggiatura. E invece sembrava, fino all’ultima puntata, ci fossero riusciti: l’immortalità dell’uomo può essere ricostruita interamente solo attraverso la polifonia dei ricordi altrui (ecco Frankenstein) e la coscienza androide diviene ancillare, non più centrale (non sembra si siano realmente chiesti che tipo di coscienza fosse, se fosse una disgiunzione o una riproposizione – uguale: reincarnazione – , ma non importa). Quindi nuovo nucleo, se non fosse che ad un certo subentra il paternalismo, la compassione verso gli abitanti del parco, fino alla bellissima immagine del suicidio di massa in inquadrature da apocalisse biblica: i corpi si disgiungono dalle “anime”, che attraversano uno squarcio fino all’Eden (puntata dieci). La puntata nove è piacevole senza dubbio, preparatoria al grande boom finale, che avviene, ma è una minicicciola.

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Precisamente: l’ultima puntata è, dall’inizio alla fine con pochi bagliori di grande suggestione, un’accozzaglia immotivata di finali. La culla (che interesse l’idea che tutta una popolazione futura fosse raccolta in un nucleo centrale, e quanta rigidità e necessità nella missione, poi palinodica, di Dolores!) è la meta geografica e fatale della serie: è il luogo della trasmigrazione collettiva, che coincide col filone di Maeve, rinvenuta miracolosamente (perché non s’è salvata molto prima? E perché quella scena davvero penosa dei tori?), e giunta nei pressi dello strapiombo per difendere la figlia e solo lei (che generosa!) da Clementine, la morte a cavallo, nonché manicheisticamente rappresentante dell’uomo, il brutteccattivo che le ha impiantato il code di Maeve rendendola un’omicida mentale. Tante domande a proposito. 1) Perché diamine se Clementine muore in pratica subito, perché allora non si ferma tutto? E perché Maeve non la contrasta a dovere? Perché è costretta a questo salvataggio mirato, sacrificando pure se stessa? E parliamo pure di sacrifici: come hanno potuto pensare che potesse funzionare la scena di Lee Sizemore, sceneggiatore assolutamente utilitarista, immolatosi per una fuga già scritta? Perché ha dovuto recitare a quel modo? Perché perché perché. E perché un uomo come Ford avrebbe pensato proprio a un Eden? Perché non a un mondo alternativo? Cosa se ne fanno di un Eden (è la domanda posta da Dolores, ma diventa anche spettatoriale)? Non basta, perché la culla è anche, come anticipato, il luogo della missione solitaria di Dolores, che vuole distruggerla, quindi i suoi simili e gli umani. E la scena patetica dell’uomo in nero (che dire – nulla! Stupende – delle porzioni a lui dedicate, col dramma della moglie della figlia e soprattutto di sé, mentre si scava nel braccio, nuovo Truman?) che subisce il rinculo? Perché l’ha sparata due tre volte nel petto, conoscendone la resistenza, e solamente la volta del rinculo si è ricordato della testa, là dove risiede il core? (E che simbologia spicciola, usare il proiettile del povero Ted?).

Altre poche cose: durante tutta la serie, le pistolettate western vincono contro mitragliatori di ultima generazione. Preservare sempre, vero, i protagonisti. Ma a che costo? E poi: la solidità della prima stagione poggiava sulla doppia temporalità, riuscita. Qui la doppia temporalità c’è ma il periodo che intercorre tra le due linee è troppo breve per determinare uno scarto, per far sì che sia congegno di attuazione drammatica. A parer mio è modo drasticamente meno riuscito della prima.

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Insomma. Sono soltanto una parte delle domande che mi sono posto, nonostante, mi preme ripeterlo, la grande riuscita di tre puntate su dieci (numero insufficiente per una serie di questo calibro). Il finale è esente dalle tre frequenze perché è da rifare, è assolutamente inemendabile, infantile, burlesco quasi. E non parliamo della marvelliana scena post-credits. Ma è la sindrome di Lost? C’è forse della terzana che gira (chissà se la trasmettono le mosche…)? Una febbre incurabile dell’arzigogolamento che qualche accademico faticherebbe a non chiamare mise-en-abyme, ma che è solo non sapersi arrestare, vizio dell’irrefrenabile. Dimentichiamocene. Joy, Nolan. Avete un sacco di tempo. Giratene un’altra di puntata finale, vi prego (e togliete ‘sta cosa della biblioteca, ma quante volte è stata fatta?). In sostanza si tratta, in proprio, di climax e anticlimax tutti qualitativi, con apice le puntate 4-7, centrali, e drammatica caduta finale. E se l’anticlimax è solitamente di tono etc, insomma voluta, qui è invece un abbaglio.

P.S. Non sia mai che si pensi ad una terza stagione (terribili auspici dalla mutaforma Dolores e dalla marpionissima ambiguità di Stubbs), ve ne prego. Perché ci si richiede: Cosa si narrerà dopo? In che modo? Quale sarà il nuovo nucleo filosofico?


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