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#ShortForm – 3 • Gli spazi del fandom. “Sherlock”

#ShortForm • La rubrica, curata da Nicolò Villani, sulla serialità televisiva. 3ª puntata. “Sherlock”,  di Steven Moffat e Mark Gatiss. Clicca qui per scoprire tutti gli articoli.


Come si è detto negli scorsi articoli, la tendenza delle serie cosiddette quality è di abbandonare l’episodicità per prediligere un racconto unico arbitrariamente frammentato, dando spazio alla continuità temporale piuttosto che agli iati creati dal formato antologico.

Una fortunata eccezione di serie quality che vede far proprio il formato a episodi per creare una narrazione che trova forza nei ritagli di tempo è Sherlock (BBC; 2010 – in corso), che, come l’originale letterario da cui prende spunto, crea una particolarissima elasticità temporale, altra caratteristica che tenteremo di attribuire a quella che abbiamo definito “archeologia narrativa”.

Nata dalla fantasia di Steven Moffat e Mark Gatiss – all’epoca già attivi ai testi di Doctor Who –, e tratta dai romanzi e racconti di Sir Arthur Conan Doyle, Sherlock è il felice tentativo di far rivivere il detective di Baker Street nell’epoca contemporanea; un cast d’eccezione (Benedict Cumberbatch e Martin Freeman nei ruoli principali), unito a un taglio cinematografico sia per quanto riguarda la durata degli episodi che lo stile di ripresa, hanno fatto immediatamente della serie uno dei principali prodotti quality, in grado di conquistarsi un nutrito e tutt’oggi attivissimo fandom; nonostante ciò, gli autori hanno sempre mantenuto i running plot di ogni stagione densi solo quanto basta a costruire una cornice abbastanza solida da arricchire il contesto di ogni racconto. Perché proprio di racconti si tratta: Moffat e Gatiss, dichiaratamente grandi fan del lavoro di Conan Doyle, hanno infatti realizzato una serie che non solo ricontestualizza un personaggio vittoriano nell’epoca contemporanea, ma allo stesso tempo ricrea con formati contemporanei lo stesso sistema narrativo ed editoriale dell’epoca, con interessantissimi risultati sul piano della temporalità rappresentata.

Quando parliamo di “archeologia narrativa”, si è detto, parliamo di quel curioso fenomeno che vede nascere nello spettatore una sorta di necessità di ricostruzione a partire dai buchi esistenti tra un episodio e l’altro; difficilmente viene esplicitata la quantità di tempo che intercorre tra i vari episodi, e questo permette agli spettatori di non trovare troppo pesante l’attesa di una settimana per l’uscita del successivo. Sherlock, in questo senso, all’interno della singola stagione (composta da soli tre episodi), estremizza questa sensazione di tranquillità e appagamento dello spettatore: ogni episodio è di per sé auto-conclusivo e risolve il problema principale al proprio interno; la temporalità perduta dello iato è potenzialmente illimitata e questo non crea alcun problema nel pubblico; il sistema, però, si complica coi finali di stagione: proprio come accaduto nell’originale letterario dopo il racconto Il problema finale, alla fine di ogni “ultimo episodio” la temporalità si contrae vertiginosamente, tanto che lo spettatore resta sconcertato dal pensiero di dover attendere almeno un anno per la prosecuzione. Se l’elasticità interna della stagione è potenzialmente infinita, quella tra una stagione e l’altra è davvero minima, e annullata da potenti cliffhanger che terrebbero incollati allo schermo per almeno un ulteriore episodio.

Sherlock 2

Questa strategia va incontro al nutrito fandom in due direzioni: durante le stagioni, l’ampio e indefinito spazio vuoto permette la prolificazione di fan-fiction o di altri prodotti grassroots; mentre, tra una stagione e l’altra, la discorsività sociale che indaga le possibili conseguenze dei cliffhanger permette alla serie di restare viva fino alla stagione successiva. Addirittura, tra la terza e la quarta stagione, la BBC ha prodotto un episodio speciale che potremmo etichettare come “meta-archeologico”: oltre a posizionarsi in una temporalità doppiamente “altra” (l’episodio si svolge contemporaneamente nell’epoca Vittoriana e nella mente di Holmes), lo spunto narrativo proviene da uno di quei racconti mai narrati, ma solo citati, da Conan Doyle: il titolo – L’abominevole sposa – compare infatti tra le prime righe del racconto Il rituale dei Musgrave; Moffat e Gatiss hanno fatto un uso attivo degli spazi vuoti lasciati dallo stesso Conan Doyle, oltre che della materia narrativa effettivamente esistente.

In conclusione, Sherlock non solo si presenta come una serie quality dal formato episodico magistralmente orchestrato, ma ci presenta nuove prospettive di analisi della narrazione archeologica, tanto da mostrarci come questa possa addirittura mantenere e generare se stessa in un gioco di dilatazioni, contrazioni e infinite possibili direzioni diegetiche.

Sherlock 3


GLOSSARIO


Fandom: insieme di pratiche e discorsi sociali che hanno in oggetto i fan di prodotti mediali normalmente cult o di successo;

Cliffhanger: evento inaspettato posto normalmente in coda a un episodio o a un racconto in modo da tenere alta la tensione e l’attesa nello spettatore;

Fan-fiction: pratica del fandom che consiste nel realizzare racconti non canonici ambientati all’interno di un universo narrativo;

Grassroots: nella definizione di Hanry Jankins, le pratiche grassroots sono quelle generate “dal basso”, cioè normalmente dai fan e non dalle produzioni ufficiali.


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