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L’opera teatrale di Gerardo Innarella a Radio Aut

Appena ho saputo della pubblicazione di Veglia per una tigre e altri corti teatrali, opera scritta da Gerardo Innarella e pubblicata per Prospero editore ho subito voluto leggere il testo e organizzare a Radio Aut una presentazione, in vista della profonda ammirazione che ho nutrito per la regia di Interno 13, Scala B, spettacolo diretto da Gerardo e messo in scena il 4 dicembre dell’anno passato.

Gerardo Innarella è nato a Napoli nel 1982 e vive a Pavia. Insegnante di Lettere, è regista e drammaturgo presso la compagnia teatrale Tra il dito e la luna. Diplomato in recitazione al teatro Fraschini di Pavia, ha cominciato a scrivere nell’ambito di un master in Letteratura, scrittura e critica teatrale all’Università Federico II di Napoli. Ha collaborato con il Teatro Ringhiera di Milano, il Teatro Nuovo di Napoli e attualmente partecipa al corso di Scrittura Creativa presso la scuola Belleville per una personale ricerca di un teatro che sia anche letteratura.

Veglia per una tigre si pone, come spesso succede nel corso della riflessione teatrale di Gerardo, l’obiettivo di rappresentare l’assurda e psichedelica follia del mondo borghese, che apparentemente avrebbe tutte le carte in regola per risultare socialmente accettabile, ma che in realtà nasconde una forte problematicità esistenziale.

Ma torniamo alla presentazione!

L’accoglienza degli amici di Gerardo, dei componenti della sua compagnia o degli ex colleghi della sua carriera attoriale hanno riscaldato l’ambiente, dando il via alle domande di Giada Cipollone, dottoranda di ricerca in Scienze della Letteratura, del Teatro e dello Spettacolo all’Università di Pavia e allieva di Gerardo. Sketch ripresi dal testo e messi in scena da alcuni dei componenti della compagnia Tra il dito e la luna interrompevano le domande di Giada, organizzando l’andamento del discorso in tre sezioni.

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L’inizio del dibattito si è concentrato principalmente sulla seconda metà del testo, ovvero tre trittici di corti teatrali dedicati rispettivamente all’uomo, al mito e alla storia. La rappresentazione è partita proprio dall’ultimo testo: Ludovica Taurisano, con profondo e delicato pathos, ha messo in scena il monologo Storia d’Europa, riproducendo magistralmente la personificazione dell’Europa, incarnata da una donna materna, passionale, amaramente scherzosa, forse un po’ succube, di certo profondamente umana, che racconta con sofferta leggerezza le sue peripezie e i suoi dolori: viene passata in rassegna la storia del nostro continente a partire da Cesare fino alle Guerre Mondiali, che hanno dilaniato il corpo e l’anima della nostra protagonista, la quale però è abbastanza forte da mettere in scena un epilogo che lascia trapelare una speranza di riscossa (il monologo si chiude con un’icastica immagine tratta da un episodio della Resistenza).

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Appartenente al trittico dedicato alla dimensione più strettamente umana è invece il monologo recitato da un’altra delle attrici della compagnia (Diana Hirtan) e già proposto in Interno 13, scala B: qui ad essere rappresentato è il trauma dell’assenza di un padre, all’interno di un parossistico panorama scolastico in cui un gruppo di peluches fanno le veci degli alunni. Una personcina infantile dalla voce squillante, con fare da maestrina, espone didascalicamente il trauma più grande della sua vita. L’ambiguità della cornice di tale messa in scena è direttamente proporzionale all’inquietudine che essa suscita.

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Da Veglia per una tigre, il corto che occupa la prima metà del libro, è tratto lo sketch messo in scena invece da Filippo Capobianco e Gaia Giardini: il figlio del protagonista morto sta vegliando sul corpo del padre e viene interrotto da una figura grottesca che lo interroga circa alcuni dettagli apparentemente privi di senso.

È proprio su questa prima parte del testo che io mi sono concentrata maggiormente, fugando i miei dubbi con un’intervista:

Da quello che scrivi e metti scena si evince sempre, come ti ho già fatto notare, la tendenza a riflettere sull’ambiguità della realtà borghese contemporanea, che descrivi come scissa tra la tendenza ad assecondare i dettami del mondo convenzionale e una grottesca e paradossale ambiguità di fondo. Da cosa nasce la volontà di rappresentare questo mondo, si è evoluta a partire da “Veglia per una tigre”? In che modo si collega invece alla rappresentazione di “Interno 13, scala B”?
Direi piuttosto che questi sono punti di arrivo di un percorso molto lungo che nasce in famiglia: sono cresciuto in una famiglia borghese, in cui vengono insegnati dei princìpi che ci si sforza di rispettare per tutta la vita, ma molto spesso la mia percezione è stata quasi di dover necessariamente indossare una maschera, sia io in famiglia che la famiglia nei miei confronti; mi è sempre sembrato che tutti volessero come proteggermi da qualcosa o evitare che qualcosa che avevo dentro venisse fuori perché magari le conseguenze potevano essere violente o pericolose. Il mio sforzo è stato principalmente introspettivo, per cercare di capire cosa avessimo dentro noi e cosa avessero dentro le famiglie di oggi: ho riscontrato degli aspetti comuni alla mia famiglia e alle famiglie altrui e da lì ho costruito il pensiero; l’indagine, più che sulla borghesia è proprio sulla famiglia borghese, così sia in Veglia per una tigre che in Interno 13, Scala B.

Sempre restando su “Veglia per una tigre”: ho potuto notare che spesso ti sei soffermato sul creare delle rime molto allitteranti tra di loro che creavano un discorso privo di senso logico; era come se fossero una continua connessione di suoni e di pensieri istintivi. Vorrei chiederti se hai voluto inserire queste parti come un insieme di riti che ponessero una pausa tra vari momenti più realistici della narrazione. È molto significativo che siano i Pacifico a compiere questi “riti”, che dichiaratamente rappresentano dei non-umani, delle “essenze”, figure che nell’immaginario tradizionale possono essere più verosimilmente associate ai riti. La questione della ritualità c’entra in questo contesto? È stata per te fonte di ispirazione?
Il rito è più una componente che devo agli studi: il teatro nasce come rituale. La componente rituale c’entra quasi intesa come “esorcistica”: questi personaggi, che sono appunto i Cronopios, provano a tirare fuori qualcosa che c’è dentro ed è questo il significato proprio di esorcismo. I passaggi più ritmati e apparentemente privi di senso sono quelli in cui con i suoni (c’è infatti anche una componente musicale) si provava a tirare fuori qualcosa. Ma non è un’esclusiva di Veglia per una tigre, anche all’interno del trittico Uomo e storia si cerca di mettere in scena, con il coro degli italiani, quasi un grottesco rituale, corale, ritmato e rimato, alternato a passi danteschi tratti dai canti degli Accidiosi e degli Ignavi.

Uno dei fili conduttori all’interno di questo testo è sicuramente un foglio bianco che i Pacifico scambiano tra di loro interrogando i sospettati. Pare sia uno degli oggetti principali all’interno del contesto di morte del protagonista, almeno così viene rivelato a un certo punto della narrazione. All’interno del contesto surrealista del tuo racconto quanto è un elemento importante nel concreto e quanto invece è un elemento inserito piuttosto grottescamente nel contesto?
No, è un elemento fondamentale: è l’oggetto che uno dei quattro Cronopio mostra ai familiari del morto; attraverso questo foglio bianco lui cerca di capire cosa sia successo, ma alla fine diventa uno strumento, per lui, per pronunciare l’elogio funebre nei confronti del morto stesso, è un foglio bianco che si riempie di parole proprio nel momento in cui lo si legge. “Ciascuno di noi ha un foglio bianco che deve essere riempito da parole, però quando moriamo quello che resta di noi è un foglio bianco perché ognuno muore senza parole”. È un modo, questo foglio, in cui si cerca di avvicinare i familiari alla percezione del lutto.

Non ho potuto che considerare evidenti le tracce del teatro dell’Assurdo all’interno di questo testo, l’elemento dell’attesa (del carro funebre, in questo caso), che ricorda Beckett e “Aspettando Godot”, mi è parsa un segnale evidente. Definisci questo testo dichiaratamente surrealista? È questa la corrente in cui lo inseriresti oppure è piuttosto un insieme eclettico che risente inconsciamente di più correnti?
In realtà io non so se esiste il teatro dell’Assurdo, so che c’è Beckett, so che c’è Ionesco e sono sicuramente autori che adoro. Si sa, quando leggi opere di autori che ti piacciono tantissimo e che in qualche modo suscitano in te qualcosa di molto forte, esse riescono a costituire degli ipotesti per la tua narrazione. Di “Aspettando Godot” c’è sicuramente l’attesa, che però in questo caso è più l’attesa di qualcosa di indefinito. Sicuramente c’è l’ispirazione a un assurdo teatrale. Comunque mi auguro di aver creato un filo conduttore più razionale rispetto a Beckett.

Il personaggio di Gabriella è molto significativo, perché non rivolge mai la parola a nessuno; probabilmente è semplicemente molto rancorosa per l’abbandono del padre, ma forse invece questo suo silenzio rappresenta qualcosa di più profondo, come se fosse la personificazione del senso di colpa del protagonista defunto. Cosa c’è di realistico e cosa c’è di simbolico?
Direi che  è un personaggio molto realistico. È la figlia venuta fuori da un altro incontro, che si presenta il giorno della veglia creando scompiglio, perché è sempre stata ignorata e tenuta da parte e in questo rappresenta una dinamica del tutto realistica che serviva a dare un quadro di come il protagonista, il morto, sia un essere umano a tutto tondo.

Anche la figura di Franco mi ha colpito particolarmente, in quanto colui che maggiormente si prende la responsabilità di eseguire i riti, di parlare in un determinato modo, di seguire con le rime delle riflessioni irrazionali. Chi è Franco? È la rappresentazione più pura dell’inconscio, della tigre che si vuole svegliare?
Beh, non solo lui, ma tutti i Cronopios lo sono. Anche se lui è effettivamente il leader, uno di quelli che organizza e progetta: è lui a definire le posizioni, a dire come le cose devono accadere, è lui che organizza questo rituale, è quasi l’architetto della scena (ci sono dei momenti in cui questi personaggi si lasciano andare a manifestazioni di dolore incontrollabili e sembra quasi che sia stato pianificato all’inizio).

Padre e figlia e madre e figlio sono delle figure speculari che in questo tuo racconto hanno un certo particolare legame. È casuale questa scelta oppure hai voluto rappresentare la raffigurazione iconica della società familiare in cui si assiste a particolari legami genitore-figlio tra sessi inversi?
C’è sicuramente una componente stereotipata (a partire dalla quale si sviluppa una storia più profonda), è vero che la madre tende quasi ad invidiare i successi della figlia e a coccolare questo figlio che ancora va a scuola nonostante l’età avanzata, ma diciamo che comunque i loro rapporti sono sempre molto superficiali.

Anche l’elemento della risata di Rosa mi ha colpito molto: all’interno del funerale è quanto di più inadeguato e parossistico possa esistere. Questo elemento può considerarsi quasi una sorta di catarsi momentanea in previsione dell’obiettivo finale (la liberazione della tigre, l’inconscio)?
No, lei rappresenta piuttosto una delle “Speranze”, personaggi sospesi tra la ragione e l’istinto, che spesso si abbandonano, confusi, ad atteggiamenti ambigui.

Molto interessante l’unità di tempo luogo e azione della narrazione: in “Veglia per una tigre” sono quasi sempre tutti in una stanza e stanno facendo unica cosa, vegliare per un defunto. Specificatamente questa cosa viene sviluppata attraverso zone diverse di una stessa stanza. Anche in “Interno 13, scala B” c’era un’ambientazione simile: era un condominio diviso in determinati appartamenti; qui è una stessa stanza divisa in determinate zone; tu scegli spesso un’ambientazione domestica e un’unità di tempo, luogo e azione per un motivo specifico oppure è una scelta casuale?
Veglia per una tigre tratta di una questione familiare, quindi necessariamente il luogo dev’essere la casa. Per me la scenografia dev’essere parte della drammaturgia: questa la ragione delle mie “etichette” legate a determinate zone della casa, consone a permettermi di far parlare i personaggi. Tant’è vero che i pezzi a un certo punto si modificano, quest’unità di luogo viene spezzata e gli elementi che componevano il salotto borghese diventano a un tratto delle automobili utili a raggiungere il luogo del funerale, è una scenografia modificabile e utile in funzione della messa in scena e dei personaggi. Anche nell’ultimo spettacolo (Oniricazione) questa unità di tempo, luogo e azione si spezza del tutto in funzione della drammaturgia.

È evidente, alla fine di “Veglia per una tigre”,  l’elemento stilistico del flusso di coscienza: se concettualmente l’obiettivo finale è quello della liberazione della parte razionale da schemi precostituiti, la forma del flusso di coscienza può rappresentare coerentemente a livello stilistico quello che si vuole dire concettualmente?
Ci hai preso: il fulcro della vicenda, l’epilogo, vuole rappresentare la piena liberazione della parte più istintiva: è un getto di sincerità sugli eventi e sulle cause dell’accaduto. Non poteva che essere espressa in una forma che a livello stilistico assecondasse le intenzioni concettuali.

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