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“Interno 13, Scala B”: rassicuranti sequenze di follia

Mossa dall’ingenua consapevolezza di star andando a vedere una commedia divertente di attori non professionisti, domenica 4 dicembre, ho partecipato alla visione di Interno 13, Scala B, uno spettacolo teatrale scritto dagli attori stessi della compagnia Tra il Dito e la Luna, diretto da Gerardo Innarella e messo in scena al Teatro Domus Pacis.

Già ad una prima impressione, però, ho avuto la possibilità di direzionarmi in maniera immediata verso un coinvolgimento molto più profondo di ciò che pensavo: sono riuscita presto a constatare che non solo non si sarebbe trattato ”semplicemente” di una commedia, ma anche che non si sarebbe trattato ”solo” di divertimento.

Frazionati in maniera sapientemente sequenziale si svolgevano davanti agli occhi dello spettatore una serie di episodi, che avevano come protagonisti i peculiari abitanti di un palazzo residenziale ”come tanti”.
Un filo conduttore concettuale comune a tutte le storie, che apparentemente sembravano profondamente diverse, è stato evidente già dal primo sketch. Si tratta di una tendenza emblematica della società borghese (che in questo spettacolo è stata magistralmente rappresentata in tutta la sua apparenza ironica e colorita, monotona e ingenuamente delicata, ma al contempo profondamente drammatica): una certa “superficialità” nel trattare dei concetti più profondi e traumatici, una sorta di brama di ”normalizzare l’anomalo”, di ”regolamentare l’assurdo”.
Interessante in questo senso la maniera in cui uno dei primi personaggi a parlare giustifica il suo grave tradimento (l’aver messo incinta la moglie del fratello). Espone infatti i suoi traumi infantili, riguardanti l’insicuro vivere nell’ombra rispetto al fratello, con una peculiare ingenuità espressionistica, che, oltre a caratterizzare bene il personaggio, che trova nella sua fragilità e nel suo disagio la sua forza teatrale, suggerisce sapientemente questa tendenza a ”sminuire il drammatico”, nel contesto di una realtà apparentemente asettica ma fortemente anomala e pregnante di tensione.
Un altro degli episodi pone in scena quella che sembra una normale donna sposata con figli intenta in quella che sembra una normale chiacchierata pomeridiana con la madre. Nel contenuto del discorso, però, si rivelano drammi personali non indifferenti (l’imminente divorzio, l’attesa di un bambino frutto di un’unione extraconiugale…), che la donna quasi palesa di non sentire come tali, in una recitazione naturalistica dal sapore quotidiano, che mette sullo stesso piano la descrizione degli eventi futili e di quelli drammaticamente significativi.
Ma uno dei momenti di maggiore tensione drammatica in questo senso, che vedono come protagonista questa paradossale e malata smania di ”regolamentare l’anomalo” in una follia paradossale, è rappresentato dal monologo di una ragazzetta svampita che, rivolgendosi ad un insieme di peluches, si finge insegnante: la donnina inquadra in un contesto ”accademico” e ”regolarizzato” la drammatica follia di un pesante trauma infantile senza sbocco.
Ma questo sapore allo stesso tempo tragico e ironico di cui, come abbiamo visto, in un modo o nell’altro tutti gli episodi dello spettacolo si fanno portatori, è magistralmente condensato nel monologo di un’adolescente dalle treccine e dal trucco pesante. Profondamente segnata dal tradimento e dall’abbandono della fidanzata espone il suo dramma, caratterizzandolo con parentesi ironiche geniali e paradossali; utilizza una veemenza espositiva passionale quasi parodica, nonostante si tratti in realtà di un dramma effettivo e profondamente sentito, che nella passione ironica dei gesti e delle parole è bramoso di trovare il suo straniamento, ma proprio nella paradossale ironia dei suoi toni trova la sua tragicità.

Ma lo spettacolo non avrebbe avuto la stessa efficacia strutturale senza che, nella filigrana di un insieme frammentario, tra una storia e l’altra, non si fosse assistito ai dialoghi e agli scambi di una coppia di portinai, in preda a una realtà quotidiana e monotona, quieta e tipizzata, del tutto diversa dalle profonde anomalie di tutti gli altri protagonisti, del tutto indifferente rispetto alla follia circostante. I due personaggi mettono quasi una firma sulla volontà del regista di inserire la follia in un contesto normale e stereotipato, la loro presenza è volta a impostare una sorta di ordine alla base del disordine circostante, a regolarizzarlo, a scandirlo, a dargli una forma paradossalmente accettabile.
Geniale il personaggio della portinaia: donna semplice ma molto arguta, consapevole di quanto la natura ingenua del marito avesse necessità di una figura banale e  rassicurante, ma al contempo bisognosa di qualcosa di più intellettualmente profondo, dedita a riflessioni dagli spunti incredibilmente acuti, ma non abbattuta dalla condanna a una vita limitante, piuttosto coscienziosamente rassegnata, in una superiorità morale disarmante.

A coronare il quadro di un insieme frammentario e al contempo unico, in un’ambientazione definita e insieme potenzialmente infinita, è la costruzione sapiente della fine: tutti i personaggi sulla scena sono fermi di fronte alla follia di un vecchio con un registratore, che diventa da un lato la rappresentazione della follia generale del palazzo e dall’altro l’esposizione di eventi passati, neutrale ma profondamente sentita, da tutti in personaggi universalmente condivisa.

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