“Funny games” di Michael Haneke

Si è conclusa ieri sera la rassegna di film Sussurri e grida di Radio Aut, con un film che ha stimolato un dibattito costruttivo nelle diverse posizioni assunte: il film in questione è Funny games di Michael Haneke. La pellicola è del 2007, ma è il risultato di un remake shot-for-shot dall’omonimo film dello stesso regista, girato dieci anni prima; Haneke decide di impegnarsi in una nuova produzione con un nuovo cast per raggiungere anche il pubblico americano, il destinatario più adatto della critica mossa dal film. Ma andiamo con ordine.

Per molti versi, questo thriller è intriso di una violenza che ricorda molto quella kubrickiana di Arancia meccanica: sproporzionata, assurda, fine a se stessa, senza morale, perché il sadismo puro non ne prevede. Ci sono tuttavia delle notevoli differenze. Innanzitutto, il focus: mentre in Kubrick il punto di vista è quello di Alex, il carnefice, in Funny games viviamo la vicenda dalla parte della famiglia seviziata. Il ruolo del sadico, d’altronde, ricoperto in questo caso da due personaggi, Paul e Peter. Questa dualità, attenuata dalla somiglianza esteriore (entrambi biondi e dall’aspetto pulito, da ragazzi di buona famiglia, vestiti di bianco come due giocatori di golf, guanti compresi) si manifesta nelle due personalità opposte: Peter (Brady Corbet), è instabile, lunatico, più incline a scatti di violenza e ira senza controllo, ma facilmente controllabile da Paul (Michael Pitt). È lui la mente del duo, lucidamente razionale e allo stesso tempo grottescamente creativo nell’ideare nuovi “giochi” con i quali torturare psicologicamente e fisicamente Ann (Naomi Watts), George Snr. (Tim Roth) e George Jr. (Devon Gearhart). Quella che era partita come una tranquilla e rilassante vacanza al lago si trasforma in un incubo senza via d’uscita.

L’asetticità dei due personaggi, di cui non conosciamo altro se non i nomi, riflette la forma estetica del film. Nessun fronzolo decorativo, sia visivamente che uditivamente: Haneke non vuole stimolare l’emotività dello spettatore, e infatti utilizza uno stile iperrealistico, con inquadrature fisse e che ritagliano quadri d’ambiente o primi piani insistiti e soffocanti, dalla durata quasi documentaristica, la colonna sonora prevede solo rumori e suoni diegetici, e anche la sola musica presente è quella che ascoltano anche i personaggi; è assente qualsiasi musica che direzioni e amplifichi le nostre emozioni. La tensione viene lasciata crescere seguendo lo svolgimento naturale della vicenda, senza alterazioni artificiali, e rimane costante, arriva a dei picchi d’intensità che però non trovano soluzione, non raggiungendo un’acme, un momento massimo. Quando in Arancia meccanica la violenza è esperita fino in fondo, Haneke compie la scelta di sospenderla e non ammetterla nel film: nonostante le terribili torture, l’angoscia opprimente e le umiliazioni disumane a cui sono sottoposti i tre componenti della famiglia, noi non vediamo mai direttamente la violenza fisica; ci è concesso di indovinarla attraverso i suoi effetti (cadaveri, sangue, grida di dolore o terrore), ma in qualche modo è sempre mostrata di lontano o in parte, o udita; insomma, non interessa mai il canale visivo. E ogni volta rimaniamo come insoddisfatti, incapaci di sfogare l’angoscia attraverso la visione catartica della violenza, dato che ogni tragedia è smorzata, soffocata.

Questo e l’estrema asciuttezza estetica del realismo ci impediscono di creare un collegamento empatico nei confronti dei personaggi: il film esibisce una realtà chiusa che ci respinge, osserviamo con il distacco di chi è esterno, proviamo quasi noia dopo due minuti di ripresa insistita su Ann che cerca di liberarsi per fuggire dalla casa. Ma quando ci siamo posti in maniera passiva rispetto alla storia e ai personaggi, e ci sentiamo al sicuro, ecco che Haneke sconfessa questa sicurezza e ci procura un vero e proprio shock visivo e mentale: in diversi punti del film, Paul rompe la quarta parete e si rivolge direttamente al pubblico, sollevando interrogativi che vanno a colpire la morale e l’etica di chi guarda:

“Pensi che sia abbastanza? Voglio dire, voi volete un vero finale, non è così? Con uno sviluppo di trama plausibile. Giusto?”

Lo spettatore sospende il dubbio dell’incredulità nel sentirsi interpellato e riflette sulla domanda. Lo scopo di Haneke, qui, è muovere una critica alla violenza gratuita nel cinema. Paul ci accusa di essere partecipi della loro violenza e lo rivela chiaramente alla fine del film, mentre dialoga con Peter:

Paul: Tu lo puoi vedere nel film, giusto?

Peter: Certo.

Paul: Beh, allora essa è reale come la realtà, perché tu puoi vederla. Giusto?

Il film è finzione, ma di per sé costituisce una realtà non meno reale della nostra; pertanto, chiedendo un certo tipo di intrattenimento, siamo direttamente responsabili di ciò che vediamo. Haneke ha molto caro questo tema, e lo sviluppa in tutta la sua produzione cinematografica.

Per quest’anno, il cineforum si è concluso, ma il prossimo ricomincerà un nuovo ciclo. Non resta che aspettare i soliti giovedì di Radio Aut, per scoprire il tema della prossima rassegna.

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