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“Ghost in the shell” e la perfetta simbiosi tra animazione e filosofia

di Claudio Lacirignola

Attenzione: l’articolo potrebbe contenere spoiler.

Gli anime (film o serie tv d’animazione giapponesi) sono entrati ormai da tempo a far parte della cultura “pop” mondiale. Basti pensare a personaggi come Lupin, Goku o più recentemente Rufy ed Eren, entrati nell’immaginario collettivo e diventati ormai icone alla pari (o più?) di Topolino e company.

Ed è il caso di Ghost in the shell (GITS) – tratto dall’ononimo manga Kokaku kidotai, letteralmente “squadra mobile con corazza offensiva” – film di Mamoru Oshii, visionario regista di fama mondiale che ha sfornato gioielli del calibro di Patlabor the movie e Lamù beautiful dreamer. Rilasciato nel 1995, quando ancora gli anime venivano scarsamente presi in considerazione dalla critica internazionale salvo rari casi – Myazaki, Takahata e il loro Studio Ghibli -, sorprese per le innovative tecniche di animazione, l’impeccabile regia e messa in scena, lo stile cyberpunk ed i temi maturi trattati, che fornirono da spunto per opere del calibro di Matrix e A.I. – Intelligenza artificiale.

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La storia è ambientata in un futuro prossimo (2029), dove la tecnologia ha stravolto la vita degli esseri umani, che, istallandosi protesi cibernetiche, divengono cyborg dalle straordinarie capacità fisiche e mentali. A New Port City, Giappone, opera la Sezione 9 pubblica sicurezza, reparto di polizia specializzato nella risoluzione di crimini informatici, in cui spicca per le eccellenti doti investigative e di combattimento il maggiore Mokoto Kusanagi, protagonista della storia e donna la cui parte cibernetica ha preso il sopravvento su quella umana, di cui sono rimasti pochi tessuti neurali. Insieme al suo collega ed amico fidato Batou, si ritroverà a seguire le tracce del “Puppet Master”, potente e geniale hacker che riesce ad introdursi nel “ghost”(la zona del cervello attribuita ad una sorta di anima) delle persone, per assumerne il controllo.

Questa strabiliante pellicola rivoluzionò completamente i lungometraggi di animazione, donandogli una nuova immagine. Ghost in the shell fu la prima ad utilizzare la computer grafica per la realizzazione dei fondali. Prima di allora, gli sfondi erano riquadri dipinti, solitamente ad acquerello, su cui venivano sovrapposti fogli di rodovetro (fogli trasparenti su cui era disegnato il soggetto a colori da animare) in sequenza, facendo quindi interagire i vari personaggi su uno sfondo statico. L’animazione in CGI rende i fondali “vivi” e dinamici, permettendo ai protagonisti della scena di muoversi in tre dimensioni, utilizzando le medesime tecniche registiche di un film live action, come l’aumento della profondità di campo o la scelta di un obiettivo piuttosto che un altro. L’eccellenza di GITS è dovuta alla bravura degli straordinari animatori che sono stati in grado di descrivere le cose all’interno di uno spazio distorto senza però portarle al collasso. Per comprendere la ricchezza di questi disegni originali sarà utile soffermarsi sul modo in cui sono descritte le “cose che non si vedono” o che “non hanno forma”. I più rappresentativi sono gli elementi quali l’aria, l’acqua, la luce e la gravità.

Il secondo importantissimo aspetto di questa pellicola è l’etica e le domande esistenziali che Oshii pone allo spettatore attraverso le emozioni e i drammi dei protagonisti. Nel 1995, Ghost in the shell predisse i temi etici centrali del discorso sull’intelligenza artificiale e le sue conseguenze sociali e politiche; sebbene non al pari di GITS, questi temi sono infatti divenuti attuali, visto l’uso che facciamo dell A.I., a volte senza neanche rendercene conto, e quanto siamo dipendenti da essa: ciò che vent’anni fa veniva immaginato in Ghost in the shell è un mondo di identità virtuali molto simile a quello in cui viviamo ora e a ciò che puntiamo ad arrivare a livello di progresso tecnologico, con un contrasto continuo tra la paura della morte e la perdita della propria identità.

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Nonostante le nostre apparecchiature non siamo ancora in grado di pensare ed agire come un perfetto essere umano, è interessante analizzare la figura del Puppet Master, software che ha preso coscienza propria, e la sua vicinanza alla realtà odierna. Come accennato poco fa, nessuno ha programmato il “burattinaio”: originariamente un programma di spionaggio industriale; semplicemente, si è evoluto da solo acquisendo informazioni dall’infinita rete internet. Secondo diverse teorie, simili per certi versi a quella della singolarità tecnologica – teoria secondo il quale il processo tecnologico di una determinata civiltà accelererà a livelli oltre la comprensione umana – è proprio in questo modo che si evolveranno le nuove A.I. che, in base ad alcuni calcoli effettuati in tempi recenti, compariranno in una data non troppo lontana da quella in cui è ambientato il film.

Se da una parte abbiamo le intelligenze artificiali, dall’altra abbiamo i cyborg, tra cui la nostra eroina Mokoto. Essi si differenziano per la loro natura umana precedente alla fusione cibernetica, e il “ghost”, ovvero l’anima, che solo esseri dotati di vita organica posseggono. Qui entra in gioco una domanda, che è anche il fulcro su cui ruota la pellicola stessa: cosa ci rende umani? Può un essere in precedenza umano, che ha sostituito ogni sua parte organica con metallo e chip, definirsi ancora tale? Questo è il quesito che si pone il maggiore, tormentata dalla propria dualità fisica e spirituale tanto da arrivare a chiedersi se sia mai stata un essere umano e se i suoi ricordi non siano stati impiantati artificialmente – un breve rimando al capolavoro Blade Runner, che va decisamente a braccetto con questo film. Il titolo Ghost in the shell riprende un testo psico-filosofico che tratta il dualismo cartesiano mente-corpo, scritto da Arthur Koestler nel 1967 dal titolo Ghost in the machine. Il “fantasma” rappresenta la coscienza umana (potremmo chiamarla “anima”, come appurato in precedenza) all’interno del corpo, prima organico e successivamente cibernetico. Il “ghost” è la coscienza umana, ma anche quella del burattinaio: lui si rende conto di essere una forma di vita generata dall’uomo e sviluppatasi nel mare di informazioni. La distinzione e definizione di vita e coscienza, quando si assottiglia il confine tra biologico e tecnologico, è quindi impossibile.

Il messaggio lasciato da GITS, però, va oltre la paura dello sviluppo tecnologico, e possiamo comprendere ciò nel terzo atto: il maggiore Kusanagi accetta infatti di fondersi, nella memorabile sequenza finale, con il Puppet Master, unendo i loro ghost attraverso la rete e creando un nuovo essere, che comprende allo stesso tempo ambedue le identità senza esserne nessuna. Questa fusione, che segna la creazione di una nuova razza nel senso stretto del termine, potrebbe divenire realtà un domani, in cui la differenza tra uomo e macchina sarà, visto il progredire della tecnologia anno dopo anno, millimetrica.

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