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Inland Empire – L’impero della mente

Giovedì sera si è conclusa la rassegna cinematografica di Radio Aut su David Lynch con la visione di Inland Empire (2006), film presentato alla 63ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, in occasione della quale il regista ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera. Si tratta dell’ultimo capitolo della Trilogia sull’inconscio (e del suo ultimo – fino ad ora – lungometraggio). Quando si dice dulcis in fundo, insomma.
I temerari che hanno sfidato il freddo e la nebbia (Pavia, sei magica in autunno…), il sonno (2 ore e 52 minuti di film), il mal di schiena (ma la libreria si è rivelata un ottimo poggiatesta) e la sanità mentale (vedete oltre) per essere presenti, anche questa volta, capiranno cosa intendo. Colgo l’occasione per rivolgere nuovamente un pensiero speciale a chi si è impegnato a portare avanti questa iniziativa, sopportando persistenti problemi tecnici – ma qui doveva essere lo spirito di David che aleggiava su di noi – e fornendoci utili chiavi di lettura per (almeno) intravedere un barlume di senso in questo flusso di coscienza cinematografico (soprattutto, grazie Carlotta e grazie Radio Aut). Ma veniamo al film.

Oltre a decidere di utilizzare, da qui in avanti, il digitale, Lynch sperimenta un nuovo modo di concepire e costruire la trama della propria opera: egli stabilisce di girare senza l’ausilio di un copione fisso, ma di uno scritto giorno per giorno – insieme alla interprete principale Laura Dern, Nikki Grace/Susan “Sue” Blue nel film – durante il corso delle riprese. Anche per questo motivo, Inland Empire risulta essere indubbiamente la pellicola più complessa, irrazionale e caleidoscopica delle tre.
Dalle prime scene tutto risulta criptico, simbolico, allucinante (destabilizza, a mio parere, in particolare, la “famigliola” di conigli antropomorfi, le cui battute stridono con le risate che sentiamo fuori campo, quelle tipiche da mad-sitcom made in USA). Ad un certo punto intuiamo di essere all’estero, nell’est Europa. Bianco/nero, luce/buio, volti censurati e dialoghi che si susseguono, incomprensibili.
Poi, Los Angeles, e per qualche momento ci sembra di poter capire qualcosa. Una vicina suona alla porta accanto per presentarsi a Nikki, un’attrice: ancora una volta ecco il mondo di Hollywood, messo sotto i riflettori – e criticato – dal regista. Stanno per iniziare le riprese di un film (un remake, veramente) e Nikki spera di ottenere la parte. Da lì a poco, però, realtà e finzione, cinema e vita, inizieranno a collidere e collassare, di pari passo con i piani temporali della trama stessa. Infatti, la conversazione tra le due donne diventa la molla che fa scattare un’altra storia – forse, o sempre la stessa – perché, se oggi fosse domani… Ma il set è pronto. Si gira.
Tuttavia, ancora una volta, a partire da circa la metà del film, abbiamo sempre più l’impressione di esserci persi dentro un incubo, un’allucinazione: più i minuti scorrono, più l’angoscia cresce. Siamo intrappolati e non c’è via d’uscita, non c’è ragione che tenga. Noi, sudditi umili dell’impero della mente, non possiamo fare altro che inginocchiarci, piegarci davanti questo delirio da psiche sconvolta, e lasciarci travolgere.
Dico “noi”, perché è impossibile restare emotivamente distaccati: questo incubo è quello di Nikki, è quello di Lynch ma è anche il nostro. Allora, losche figure armate di cacciavite ci inseguono, un gruppo di puttane – a mo’ di coro greco – prima ci ignorano, poi ci deridono e ballano per noi. Identità diverse (persone o personaggi… fa differenza?) si avviluppano a tal punto le une sulle altre da esplodere, trasfigurandosi in mostri agghiaccianti e grotteschi, mostri dai quali scapperemmo se non ci rendessimo conto di essere noi stessi uno di loro.
Non resta che urlare, scappare, piangere o semplicemente stare tranquilli perché va tutto bene, stiamo solo morendo.

Vi lascio ricordandovi l’appuntamento, giovedì prossimo, con le ragazze del Collettivo femminista e il loro Radiocineforum: per l’occasione proporranno la visione di Tomboy (Cèline Sciamma).

Buona settimana!

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