Concorsi

Il reietto e la giraffa

Racconto di Guido Pampaloni – 7º classificato al Concorso Letterario “Sogno, superstizione, magia” 2022.

Il trascorrere del tempo mi sembrava irreale, ma ormai era passato un anno esatto dal mio arrivo qui al Cairo. Naguib, mentre abbassava la saracinesca arrugginita e cigolante, mi guardava con profondo affetto filiale: d’altronde, se non fosse stato per lui e la sua inaspettata accoglienza, non sarei stato altro che uno sporco bambino di villaggio di quello strano Paese, che poi ho scoperto chiamarsi Sudan. L’atmosfera soffice e calda del negozio di tappeti di Naguib mi rasserenava e quella piccola striscia di tessuto sul pavimento, che era il mio giaciglio, mi faceva dimenticare per un momento di essere un “reietto”. Peraltro, che mi considerassi un reietto non era in discussione: a parere di tutti quelli che credevo fossero conoscenti e amici giù al villaggio, mio padre era uno stregone e, di conseguenza, aveva diffuso geneticamente a me e ai miei fratelli quello strano morbo. Dovevo ammettere però che non riuscivo a capire se il mangu fosse o meno nel mio corpo.

Ancora restavo sconvolto al ricordo della mia trasformazione da piccolo dodicenne a un “marchiato”, a un mostro. Ricordavo ancora tra i brividi quel pomeriggio assolato: le condizioni del capotribù, malato da tempo immemore, si erano aggravate e senza chiari motivi. Nel villaggio regnava un clima di strana inquietudine e nessuno osava azzardare ipotesi, parola che, per me, rimane ancora oggi incomprensibile. Tuttavia, proprio in quel periodo atroce dell’anno, il più caldo e dispendioso, si presentava in diversi villaggi della regione un medico itinerante che spergiurava di essere in grado di identificare o perlomeno circoscrivere il male dei malati in una zona precisa del corpo. Giunse anche nel nostro villaggio e rapidamente i famigliari del capotribù gli chiesero assistenza con le condizioni del malato già irrecuperabili. Il rituale, promesso dall’uomo che molti ritenevano saggio ma a me sembrava solo strano, mi spaventava: veniva preparato un veleno, una mistura indistinta, e poi applicato su alcuni ignari polli del villaggio. In questo modo, l’oracolo, predisposto dalla taumaturgia del medico, “parlerebbe” attraverso l’effetto del veleno sui polli. Sospettando una stregoneria (che parola inquietante, ma in fondo così naturale!), il primogenito del capotribù liberò diversi polli nella rada boscaglia poco fuori dal villaggio, accompagnandosi a braccetto con il medico. Venne somministrato con cura il veleno a un pollo scelto casualmente e nominato a voce un sospettato individuato dal figlio: da qui, si richiese all’oracolo di uccidere il pollo se effettivamente il nominato fosse stato il colpevole. Tutto questo mi è stato raccontato poi da mia madre in lacrime. Morto il pollo, il medico aveva somministrato il veleno ad un altro, chiedendo all’oracolo di risparmiarlo se veramente il sospettato citato prima fosse stato il responsabile. Tutto per un pollo!, ironizza Naguib. Non comprendo il motivo per cui proprio mio padre sia stato accusato di essere uno stregone e soprattutto che motivo avrebbe dovuto avere per “stregare” il capotribù, un autentico sconosciuto per noi. Fatto sta che quella sera ricevemmo davanti alla nostra piccola abitazione un messaggero con un’ala di pollo in grembo. Mio padre sbiancò sorpreso di essere additato come stregone, ma se così era stato stabilito dagli oracoli, non c’era motivo per non crederci. Ordinò a mia madre di riempire d’acqua una grossa zucca che campeggiava sul tavolo sgangherato che costituiva nello stesso tempo il tavolo da pranzo e il mio letto: bevve un sorso molto abbondante e ne sparse il resto sull’ala di pollo, assicurando di volere solo un bene genuino per il capotribù e che, se la malattia fosse dipesa dalle sue involontarie stregonerie, sarebbe presto guarito. Il giorno dopo, infaustamente, il capotribù non si svegliò più e ricordo con terrore le occhiate e le accuse a mio padre e a noi fratelli, degeneri figli di quel mostro.

L’idea di fuggire dal villaggio, con sempre più sguardi rancorosi e implacabili fissi sulla mia famiglia, non mi aveva mai neppure sfiorato. In quel momento, mio padre era pure gravemente malato, forse vittima di stregoneria. Tutto accadde con una rapidità inimmaginabile: uomini stranieri con strani vestiti verdi erano giunti nel mio villaggio per osservare le giraffe, considerate a forte rischio di estinzione secondo le loro previsioni. Credevano di poter trapiantare la piccola mandria e trasferirla per ulteriori studi in una struttura, il cui nome esotico (zoo?) mi suona misterioso. La giraffa era quanto di più strano e affascinante avessi mai conosciuto: mi sorprendeva il loro lungo collo e poi quegli occhietti vivaci e forse troppo curiosi. Mi lasciava triste l’idea che non potessi vederle mai più. I pochi esemplari erano stati ingabbiati in tre cassoni, sul retro di un camion scuro senza segni particolari. Il saluto del villaggio alle giraffe fu organizzato quasi spontaneamente dal nuovo capotribù dopo il consuetudinario pasto serale in compagnia. Ovviamente noi eravamo esclusi perché potevamo restare vittima di rappresaglie violente dopo il calare del sole. Giunta la notte più fonda, quando anche i rumori abituali si smorzarono del tutto, uscii dalla finestra di casa: volevo dare il mio saluto alle poche creature che non mi erano ostili. Mi avvicinai al camioncino e vidi una luce fioca e una gabbia aperta con un animale profondamente addormentato. Poi non ricordai più nulla, solo silenzio. Mi svegliai dentro quella che poi avevo scoperto essere una gabbia all’interno del camion con la giraffa, prima dormiente, che mi teneva d’occhio confusa.

All’arrivo al Cairo pochi giorni dopo la partenza, fu scoperta la mia presenza che lasciò straniti quegli uomini che mi diedero subito qualcosa da mangiare vedendomi senza forze: che fare? Riportarmi subito al villaggio non era possibile, sarei tornato alla prima occasione se mai ci fosse stata. Nel cassone, nei momenti di solitudine e avvinto dalla fame, mi ero stretto nelle mani una piccola pietra a forma di cane con un muso allungato e inquietante che avevo trovato sul fondo della gabbia: nonostante le sue fattezze, mi dava un’energia inattesa. Mi lasciarono come un peso morto da Naguib, buonanima e noto fiancheggiatore della rivoluzione. Dovevo ammettere che senza di lui non avrei saputo come sopravvivere. L’unica cosa che mi rimproverava era la mia ossessione per le piramidi che avevo intravisto da una fenditura interna nel cassone, una sorta di finestrella. Non capivo neanch’io quale fosse l’insano motivo di questa mia passeggiata serale verso una grigia terrazza che mi permetteva una vista ridotta di quelle stranissime costruzioni.

Quella stessa sera ero uscito, ricevendo occhiate preoccupate da parte di Naguib. L’unico suono che mi circondava era quello dei clacson giocondi delle trafficate vie: Naguib mi aveva raccontato che tutti quei richiami col clacson fossero un modo allegro di salutarsi e allontanare lo spettro della solitudine. Quando arrivai alla terrazza in cemento, era insolitamente vuota. Osservavo il lento declinare del sole sulla piramide più elevata, quando sentì un movimento furtivo dietro di me. Il terrore mi immobilizzò: ancora stregoni? Forse no: mi ritrovai di fronte un uomo alto e sogghignante che impugnava un coltello e godeva della mia espressione. Pensai di buttarmi giù dalla terrazza, che in realtà era un cavalcavia, destinandomi a certa morte. Intanto lo sentivo avvicinarsi. Percepivo già il suo fiato caldo, impregnato di aglio. Inebetito, mi fermai attendendo il degno destino di un figlio di stregone. All’improvviso quell’uomo urlò qualcosa di incomprensibile e lo sentii fuggire strascicando i piedi convulsamente. Scomparve, come non fosse mai esistito. Ancora confuso, notai qualcosa per terra vicino a me: mi era caduta la pietra a forma di cane con il lungo muso che indicava verso sud. Ma quella non era forse la strada di casa?

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