Concorsi

Via crucis

Racconto di Francesca Maria Grande – 6° classificato al Concorso Letterario “Sogno, superstizione, magia” 2022.

Quattordici altarini per le vie del paese. Quattordici stazioni fra pizzi e merletti di corredi ingialliti, che rimarranno in vecchie cassapanche per il resto dell’anno. E ceri splendenti e fresie, ranuncoli, narcisi. Tutto ciò che nasce nei giardini o sul ciglio delle strade ha vita breve, sotto Pasqua. Come un fiume che si ingrossa dei suoi affluenti, così il corso raccoglie da vicoletti pietrosi torrenti di persone. La gente si riversa nella processione rallentando un poco dietro il Crocifisso e la Madonna in lutto. Le donne hanno tutte passato i cinquanta e si trascinano nei loro corpi abbondanti. Sotto gli abiti neri e i foulard sudano più degli uomini, lo si sente nonostante i loro profumi pungenti. Si trascinano dietro ragazzi smunti e annoiati. Fumate d’incenso investono quelli tra le prime file. Nelle case si accendono ancora i camini, ma gli ultimi raggi dal mare inondano i vicoli e la piazza di una luce dorata che disgela quell’aria d’inverno. Qualcuno mi alita preghiere calde sulla nuca e zia ha serrato il mio braccio in una morsa, ci si appoggia con tutto il suo peso. La gente porta ancora in processione gli dèi sulle spalle e vi pone sui piedistalli oggetti personali, collane di banconote. La gente recita ancora all’unisono cantilene al ritmo dei passi ed è così che si estranea dalla fatica della strada ciottolosa. Avanza in trance, con la pretesa che sappiano farlo solo i cattolici e portano germogli di grano bianco per i Sepolcri il Giovedì Santo. Nel buio dei ripostigli ogni famiglia semina in vasetti di terracotta i chicchi del grano venti giorni prima della Quaresima. Diventeranno germogli lividi più o meno come le nostre all’ inizio estate, e li orneranno di fiori di campo. La gente ignora che sono usanze più antiche di Cristo e continua ad appendere con orgoglio infantile bambole di pezza ai rami di ulivo. Bambole di vecchia con fuso e lana cardata, abiti neri e in tasca una patata trafitta da sette piume nere di gallina. Sono impiccate sotto i pergolati sette domeniche prima di Pasqua. La gente recita con voce fievole cantilene di preghiera mentre il Mito aleggia sulle loro teste grigie, che avanzano come un fiume tranquillo. Ed io ho sedici anni. Non scambio più con i miei cugini sgambetti e gomitate. Ho sedici anni e non posso più aprirmi varchi fra i corpi pingui delle casalinghe. In quel caso avrei già raggiunto Marianeve, per correre alla spiaggetta dove i ragazzini giocano a calcetto generazione dopo generazione. Luca, dall’alto della sua anzianità, si è sempre atteggiato al più savio. Ad ogni via Crucis dice che la gente dovrà pur smettere di portare le statue sulle spalle. E invece io, che non so in cosa credere, non ho voluto mai che smettesse di portare statue sulle spalle, di impiccare Quaresima agli alberi e ai pergolati, di baciare le foglie fredde di ulivo dei rami benedetti quando cadono a terra, perché “Baciale! O è bestemmia!”. Non voglio che i pizzi rimangano ad ingiallire nei cassoni per tutti i giorni dell’anno, né che tutti i chicchi di grano diventino spighe dorate. Ed ora che ho sedici anni assisto con orgoglio le zie a compiere passi da passerotto sugli zoccoli malfermi. Una mia falcata sono cinque passetti. Tocca avanzare a passo di formica finché il prete non si ferma ad una stazione. Silenzio, Cristo è caduto per la terza volta, davanti al nostro portone. Cristo cade per la terza volta davanti al nostro portone ormai da trent’anni. Ed ogni anno zia Luisa ricama a punto croce un quadretto nuovo per l’occasione. Il quadretto ritrae sempre la stessa scena, solo con colori più sgargianti e piccoli particolari differenti di volta in volta. Un’espressione, un volo di rondini, un ramo di ciliegio. La pone accanto a quello di legno tarlato che la parrocchia ci affida. Il suo quadretto è più bello di quello dell’anno precedente. E quello dell’anno prossimo sarà migliore di questo o comunque più bello di quello della parrocchia. I corpi degli altri mi fanno sudare, le preghiere umide sulla nuca mi fanno innervosire, l’odore di incenso mi priva dell’aria, zia stritola il mio braccio perché teme di cadere così, senza motivazione, persino da ferma. Io faccio un profondo respiro e sollevo lo sguardo al solito balconcino di gerani e ferro battuto. Qualche tempo fa Cristo cadeva per la terza volta e i miei cugini ed io ci sollevavamo sulle punte. Agitavamo manine sudate alla vecchina in camicione floreale. Dal nodo del grembiule le pendevano le grosse forbici e le chiavi del magazzino, perché son cose da tenere sempre sottomano. Larghi sorrisi si aprivano fra i solchi profondi del viso e ci tendeva dall’alto la mano che non sgranava il rosario. Le gambette fasciate nelle calze pesanti spostavano il peso da un piede all’altro, le forbicioni e le chiavi tintinnavano sulla ringhiera mentre salutava facce da topolini tra la folla, braccine sgomitanti. Scintillii di orgoglio si accendevano nei suoi occhi neri da colomba. Quest’anno Cristo è caduto per la terza volta e sul balconcino fioriscono i gerani. Donna Giovanna non sposta il peso da una gambetta all’altra, non sgrana il rosario. Nessune forbici e nessuna chiave sbattono contro le ringhiere in ferro battuto. Dopo la decima stazione qualcuno dà segni di resa e comincia ad andarsene, il grosso è già fatto. Il fiume diventa man mano un rigagnolo di gente spazientita. La strada si spopola e all’ undicesima tappa non ci siamo più neanche noi. Rimangono il prete, il Crocifisso, la Madonna, quelli che li portano sulle spalle e i chierichetti con le famiglie. Un randagio ha trovato il coraggio di uscire da qualche bottega abbandonata e si avvicina alle luci e ai tavolini dei bar. Don Luigi vomita preghiere sdegnate su quel piccolo gruppo di fedeli rimasti, che si guardano fra loro attoniti. Vedo dal balconcino di gerani il randagio attraversare la piazzetta, imboccare i pendii erbosi e raggiungere l’esiguo corteo nella stradina che imbocca la fine del percorso. Lo vedo esitare davanti ad un bambino che gli tende la mano, avvicinarsi a Don Luigi e annusare la sua veste, mentre lui alterna letture ed improperi. Lo vedo alzare una zampa posteriore sulla stola per battezzarla di urina. I miei cugini ed io riempiamo l’aria di scrosci di risa e ci nascondiamo dietro le persiane. Deposte ostilità infantili, ci diamo gomitate scherzose e soffochiamo il baccano con le mani sulla bocca, mentre quella miseria umana di prete ci lancia invettive infuocate dal megafono. Sopra “un mare color del vino” nonna accende il lumicino siderale di Venere e fa fiorire un campo di ciclamini d’argento. Stelle di ghiaccio scintillano d’amore e d’orgoglio nell’intimità della sera. Vegliano sulle strade che si spopolano, sulle case che si riempiono di passi disordinati, su chi ripone i corredi nelle vecchie cassapanche ad ingiallire, su chi serra le porte di casa. Un profumo di fresie inaugura un’aria diversa di calma speranza, diffondendo dai giardini nascosti dei palazzi gentilizi. Un venticello impercettibile dall’aroma di resina canticchia dalle fronde dei pini e si disperde sulla piazzetta accarezzando le facciate austere, mentre i due unici bar schiamazzano solitari fra qualche saracinesca che si abbassa. Rimango io da sola sul balconcino dei gerani, col cuore grosso di impazienza perché ho sedici anni e sento che qualcosa di bello e di nuovo dovrà pur accadere anche a me. E mentre l’aria torna ad essere immobile, d’improvviso un grillo accenna il suo canto da chissà dove. La primavera è a malapena arrivata ed è già finita. Nella placidità della sera respiro un’idea di estate.

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