Concorsi

I nomi e le mani

Racconto di Anna Barilli – 3° classificato al Concorso Letterario “Sogno, superstizione, magia” 2022.

Baldo agg. [dal germ. bald]. – Animoso, ardito,
che ha e dimostra sicurezza di sé.

L’Hotel du Centre si trovava sulla frangia ovest della città, tra i margini slabbrati della periferia in divenire. Non sapevo perché lo avessero chiamato così. Forse nella stolida speranza che si potesse sempre, in un modo o nell’altro, sfuggire al proprio nome. Io mi chiamavo Baldo e mi trovavo all’Hotel du Centre. Il perché non lo sapevo. Forse anche io, in fondo, desideravo sfuggire il mio stesso nome. O forse, più semplicemente, cercavo il mio centro e non lo trovavo.
Ad Alethea queste cose non succedevano. Ero l’anomalia, il grande sdegno, la vergogna recondita di un meccanismo rotto. Ad Alethea, le parole avevano un peso preciso. Mi parevano bocche fameliche che fagocitavano il mondo e lo restituivano pulito e ordinato, in scompartimenti stagni di verità rivelate. Vi era, nell’aria, nelle cose, sui visi delle persone, una coincidenza assoluta tra quello che i loro nomi suggerivano e quello che erano le vite, il portamento, le abilità. Ed ecco che le città avevano nomi inespugnabili di terre inviolate, che le bambine portavano nomi di fiori. Dietro ogni figlio che vedeva la luce vi era uno studio minuzioso, di anni, alla ricerca del nome. Le nuove invenzioni, se chiamate a dovere, non si guastavano mai. Nominare era il più sacro dei gesti, nominare era dare potere.
E poi c’ero io, e con me tutta la pesantezza del mio nome sbagliato: mi appoggiai alla porta di vetro e quella girò.
– Buonasera, benvenuto all’Hotel du Centre – Una voce acuta, di bambino. Alzai lo sguardo. Davvero c’era un bambino dietro il bancone della hall, arrivava a malapena a posarvi sopra le mani. Poteva avere al massimo dieci, undici anni. Eppure, aveva modi disinvolti da cui esalava una riverenza come di altri tempi. Mi tolsi lentamente il cappotto, decisi di stare al gioco.
– Buonasera – risposi solenne.
– Forestiero? – Mi strinsi nelle spalle, scrutai l’orologio. Erano le quattro di notte appena passate. Improvvisamente mi sentivo: ridicolo.
– No, ecco in verità, di Alethea. Alethea centro.
Quello sorrise alla mia precisazione, assentì con la testa. Si rigirava una campanella tra le dita, aveva occhi liquidi che mi guardavano strano. Mi venne da chiedermi come si chiamasse. Notai che portava un cartellino sul petto, galleggiava sul blu stinto della giacca oltre una fila di bottoni dorati. Strizzai le palpebre. Era un cartellino bianco, un rettangolo lucido dagli angoli arrotondati con dentro scritto: niente. Pensai che era notte, che la luce era fioca. Pensai che dovesse lavorare lì da anni, da secoli, da millenni: si era sbiadito e non ci aveva pensato.
– L’hanno cacciata di casa?
La riverenza iniziale aveva lasciato il posto ad un’impertinenza sottile. Ma io ero stanco e volevo una camera.
– No, me ne sono andato io.
Sbadigliò. Poi sembrò parlare tra sé e sé, impercettibilmente – E cosa vorrà mai dire, casa? – mi parve di sentire. Ed anche se avessi voluto rispondere, a quella domanda sussurrata, non ne sarei stato capace. Allora, per tutta risposta, alzai le mani. Le alzai in alto come fanno i ladri colti in flagrante, gli assassini che hanno calcolato male i tempi e si ritrovano avvolti dal fascio senza scampo delle torce puntate. A quella vista il portiere bambino ebbe un sussulto, lasciò cadere la campanella. Un rintocco stonato si spanse sui muri della hall, da una parete all’altra. Mi sembrò che durasse tutta un’eternità, che andasse ingigantendosi anziché affievolirsi. L’impertinenza gli era sparita dagli occhi, pareva aver riacquistato la perenne e turbata meraviglia degli undici anni, quando altro non si fa che domandare una cosa soltanto: perché?
Ma io mi chiamavo Baldo, e mi trovavo all’Hotel du Centre. Il perché non lo sapevo. Mai nella vita avevo saputo cosa fare o dove andare. C’era il problema del nome. E poi c’erano le mani. Avevo i palmi lisci, lisci come la vita senza sorprese che da tempo immemore scorreva ad Alethea. Non vi erano linee, solchi o increspature, sulle mie mani. Niente. Erano mani che non dicevano niente.
Ad Alethea queste cose non succedevano. Nascere e crescere erano azioni di una semplicità disarmante, e come avviluppate nei contorni familiari di un hobby della domenica, si srotolavano quiete lungo il filo dei giorni. Ad Alethea si nasceva col proprio destino stampato in rilievo, in una complessa mappa di linee e d’incroci che a scuola t’insegnavano a leggere.
Si prenda una mano: la linea del cuore parte appena sotto l’incavo tra indice e medio, poi si getta in una curva fino all’estremo del palmo, sotto al mignolo. È capace di prevedere chi incontrerai, in che mese dell’anno, sotto quale dei tanti portici di Alethea centro. Sa se ti dirà finalmente di sì in un cinema, o sotto alla pioggia battente. Sa che vi amerete abbastanza, non troppo e non troppo poco, e che farete l’amore tutti i sabati pomeriggio, dopo aver fatto la spesa e prima di andare a teatro.
La linea della testa è più calcata, parte tra pollice e indice e poi scivola di lato. È raro, rarissimo, che incontri la linea del cuore. Ti dirà esattamente che lavoro farai, e quanto sarai pagato. Quale sarà il tuo giorno libero, e cosa farai nel tuo giorno libero. A quale opera di chiara utilità sociale dedicherai tutto il tuo ingegno.
La linea della vita parte appena prima di quella della testa e discende in picchiata fino al polso, quasi in verticale, è un orologio infallibile che scandisce il tempo e le tappe e le svolte. Sa a quanti mesi inizierai a camminare, quante persone incontrerai abbastanza spesso da poterle con sicurezza definire amiche, e in quale modo solenne saluterai con garbo Alethea prima di abbandonarla per sempre.
Ma io mi chiamavo Baldo, mi trovavo all’Hotel du Centre, e per me non vi era nulla di pronto. Nessuno che mi attendesse sotto a un portico, nessuna causa a cui votare la mia vita insensata dalla scadenza ignota.
– Non abbiamo nessuna camera da darle.
Guardai oltre le sue spalle. Tutte, tutte le chiavi erano appese ad un pannello di legno chiaro. Decisi di insistere – È solo per una notte, domani mattina me ne vado e le prometto che…
– Se ne va?
– Sì, gliel’ho detto, me ne vado e la lascio in pace.
– Ma esce da Alethea? – gli si era accesa come una luce negli occhi, da liquidi si erano improvvisamente raddensati e sembrava volessero schizzargli fuori dalle orbite, due biglie da raccogliere prima che si mettessero a rotolare per la stanza.
– Ma poi torna?
– Beh ecco, io… io non lo so – farfugliai.
Quello iniziò a cercarsi nella tasca della giacca, poi mi porse una fotografia. Vi erano un uomo ed un bambino. Stessi occhi, giacca blu. In un angolo, un indirizzo scarabocchiato a matita. Era una città che non avevo mai sentito nominare, ma d’altronde nessun abitante di Alethea se n’era mai allontanato. Il portiere infine si girò, staccò una chiave dal pannello e me la porse con gli stessi movimenti lenti di un attimo prima. E mi ero ormai già girato quando aggiunse piano – Se lo trova, gli chieda come mi chiamo.
Iniziai a salire le scale, l’eco delle sue ultime parole mi seguiva ad ogni scalino. Mi pareva incredibile: voleva sapere il suo nome. Io, d’altro canto, desideravo soltanto una qualche elasticità, che le parole mi si scollassero di dosso e mi lasciassero lo spazio per respirare da solo. Senza che il nome che non avevo scelto mi rimanesse impigliato, a ribadire a tutta la città e ai suoi sciamani delle parole che non ero quello che avrei dovuto essere.
Continuai la salita, mi aveva dato una camera all’ultimo piano. Spalancai la finestra e uscii sul balcone. Fuori cominciava ad albeggiare, e s’intravedevano tre strade che uscendo da Alethea si tuffavano nella campagna. Una disegnava una curva orizzontale, fino all’estremo più lontano del mio campo visivo. Un’altra, appena sotto, toccava la prima e poi si snodava sinuosa più in basso. La terza, di strada, sembrava gettarsi in picchiata oltre l’orizzonte, quasi in verticale, curvava di continuo e non se ne vedeva la fine.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *