Cultura

Il mestiere del filosofo oggi. Intervista a Salvatore Veca

di Dimitra Giannoulidis e Teresa Bava

 

Intervistiamo Salvatore Veca, filosofo “di professione” che ha fatto dell’impegno civile una ragione di vita! Attualmente è vicedirettore dello IUSS, Rettore del Collegio Giasone del Maino, e direttore del Centro di Studi e Ricerche di Filosofia sociale a Pavia. Nel 2003 ha fondato “Socrate al Caffè”con Sisto Capra, giornale pavese di cultura e conversazione civile. Da questo progetto è nata da poco l’Associazione Socrate al caffè, con l’intento di dar voce ai bisogni e ai sogni dei cittadini pavesi.

Inchiostro – Professore, partiamo da una delle sue ultime pubblicazioni “Dizionario minimo. Le parole della filosofia per una convivenza democratica”, uscito nel 2009. Tra i termini che introduce ci ha particolarmente colpito ciò che lei chiama “solitudine involontaria”. Che cosa intende con questo termine?

Salvatore Veca – Mi fa piacere che tra le 12 parole chiave abbiate scelto proprio questa, che appare la più bizzarra! La solitudine non ha a che fare direttamente con istituzioni politiche, ma con gli effetti che istituzioni socialmente accettate possono avere sulle prospettive di vita delle persone.
Mi ispiro nel libro alla definizione che dà Hume della solitudine come il peggior castigo inflitto all’umanità.
L’obiezione che si potrebbe muovere è che tante persone stanno bene da sole: ma in realtà esse sono ricche di connessioni con altre. Ci sono persone invece che vengono strappate da una rete di connessioni intessute con altri, che hanno a che vedere con la loro stessa identità: ad esse vengono sottratti i riconoscimenti altrui, non c’è più nessuno che possa assegnare loro un certo nome .
Noi abbiamo molti “nomi” derivanti dal genere, dalla professione, dall’appartenenza etnica ecc. e abbiamo una cerchia di “riconoscitori” che contribuiscono a determinare la nostra identità. Dobbiamo immaginare che tutto ciò venga cancellato: restiamo allora in isolamento rispetto agli altri.
È con il processo di modernizzazione che identità stabili e predeterminate vengono meno: le persone “vengono gettate” nella solitudine delle realtà urbane.
Pensiamo alla questione “immigrazione”, essa è forza generativa di micro-condanne alla solitudine tipiche del multiculturalismo: gli “altri” vengono percepiti come non familiari e quindi ghettizzati.
Il problema è se le istituzioni politiche sono in grado o meno di rispondere alla “domanda di compagnia” delle persone.

Un’ altro termine “curioso” è quello dell’incompletezza.
In che senso deve essere inteso il suo “elogio all’incompletezza”?
Su questo tema uscirà tra poco un mio libro – “Un’ idea di incompletezza”- che sviluppa il capitoletto del “Dizionario minimo”. Ebbene, l’incompletezza è un elemento essenziale di qualunque forma di vita democratica.
Se accettiamo che esista un certo pluralismo di valori, cioè che i valori che condividiamo sono molteplici, e spesso uno invade il campo dell’altro, allora è impensabile la pretesa di un sistema sociale saturo, in cui esistono valori immutabili e coerenti tra loro: un potere politico di tipo totalitario ne sarebbe la conseguenza diretta.
L’incompletezza è allora quello “scarto” indispensabile, e ha a che fare con l’idea che la politica non ha l’ultima parola sui fini a lungo termine di una società, ma è quest’ultima che, mutando di pelle, fa emergere interessi e aspettative nuove che la politica deve essere in grado di accogliere.

Lei ha avuto un ruolo di spicco nella diffusione in Italia del pensiero di John Rawls, il più importante teorico di filosofia politica del secolo scorso.
Quale pensa sia la lezione più significativa che possiamo trarre dal filosofo americano?
Io ho tenuto in Italia la prima conferenza su Rawls nel 1981 con Norberto Bobbio, a Torino.
Lo considero un classico; in qualità di eredi possiamo trarre da Rawls tre insegnamenti: in “Una teoria della giustizia” ci insegna che in un sistema democratico, le libertà fondamentali delle persone e una qualunque forma di equità sociale, ( p.e. delle risorse), devono necessariamente essere congiunte; inoltre il “sistema delle libertà fondamentali” ha priorità sull’equità sociale.
Il secondo insegnamento è tratto dall’opera degli anni ’90 “Liberalismo politico”, che si misura col problema del pluralismo; l’ idea è che il pluralismo è figlio dell’esercizio delle libertà fondamentali: se infatti le “libertà di base” devono essere garantite in modo prioritario, è ovvio che i cittadini avranno idee diverse su ciò che vale. La sfida è riuscire, in presenza di un disaccordo persistente, a trovare un consenso sui fondamentali della convivenza.
Il terzo insegnamento è tratto dall’opera “Il diritto dei popoli”del ’99, che si interroga sulla possibilità di estendere i principi di giustizia distributiva oltre i confini di una realtà politica singola, cioè l’idea di una teoria di giustizia internazionale, che però alla fine non viene portata a compimento.

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