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Il reddito di base: un’introduzione

Un’idea bellissima, semplice, disarmante. È stata rivendicata con la più ampia varietà di argomenti e di nomi: buono di stato, credito sociale, salario sociale, reddito garantito, salario del cittadino, salario di cittadinanza, reddito demografico, reddito di esistenza, assegno universale”. [Philippe Van Parijs, Reddito di base, ragioni a confronto, 1997]

L’idea di un reddito di base nasceva già alla fine del Settecento in una prima proposta strutturata da Thomas Paine. La sua versione del basic income era una misura economica di distribuzione di denaro che potesse rappresentare il “risarcimento” per le appropriazioni di terreno da parte dei singoli individui (terra considerata eredità naturale e proprietà comune della razza umana) e quindi per correggere il generale stato di diseguaglianza. Paine pensava che il primo principio di civiltà dovesse essere rappresentato da una clausola limitativa: chiunque fosse nato in un mondo caratterizzato da un processo di civilizzazione in corso, non avrebbe dovuto trovarsi in una condizione peggiore di come sarebbe stata senza quel processo. Il fatto di essere nati in un mondo in cui il sistema della proprietà privata della terra è già stato introdotto è fonte di peggioramento della qualità e della quantità delle risorse a disposizione: ogni proprietario di terra è quindi debitore verso la comunità di una rendita fondiaria.

Oggi Philippe Van Parijs, filosofo belga, è considerato il principale sostenitore dell’introduzione del reddito di base. Tra il 1983 e il  1986 ha contribuito alla fondazione della rete internazionale BIEN (Basic Income Earth Network ), oggi punto di riferimento per chiunque sia interessato al progetto. Se la giustificazione teorica della proposta del reddito di base di Thomas Paine può sembrare lontana nel tempo e di difficile realizzazione, per Van Parijs rappresenta una soluzione concreta e immediata per affrontare i problemi del mondo di oggi e del futuro dell’economia. Giungendo a compromessi non semplici con le idee di libertà, eguaglianza, giustizia e solidarietà, Van Parijs elabora una soluzione contestuale e storica al problema della creazione di posti di lavoro, dell’avvento della tecnologia, del rapporto tra classi sociali. Il reddito di base è incondizionato e universale, una porzione di ricchezza comune redistribuita agli individui indipendentemente da qualsiasi prestazione lavorativa, da qualunque altro reddito e senza collegarsi al concetto di bisogni primari. Ciò significa che, se venisse istituzionalizzato il reddito di base, un ragazzo o una ragazza che raggiunga la maggiore età, una casalinga, il figlio di un ricco imprenditore e un barbone, riceverebbero tutti una eguale somma di denaro. Il reddito di base non ha limiti e non è pensato per averli. Si rivolge all’essere umano come appartenente alla comunità politica senza distinguere poveri e ricchi. Per questo motivo differisce da altre forme di sussidio, come il reddito minimo garantito o l’imposta negativa sul reddito: non c’è alcuna necessità di agire a livello familiare o di eseguire accertamenti sui redditi, identificando quindi i destinatari. La libertà data agli individui, attraverso il reddito di base, è definita “reale”, perché fisicamente presente in forma di reddito. L’individuo sarebbe libero di rifiutare proposte di lavoro che non consentono una reale uscita dalla condizione di povertà, libero di godere del denaro anche se lo stato non premia il suo livello di formazione, o ancor prima, libero di scegliere la sua formazione indipendentemente dalla sua condizione di partenza. Non solo: in vista di un progressivo smantellamento del concetto che oggi conosciamo di mestiere, operato dall’avvento della tecnologia che sostituisce moltissime figure professionali e modifica gli equilibri economici, il reddito di base potrebbe rappresentare una soluzione al problema della disoccupazione. Il lavoro diventerebbe un elemento non necessario per vivere.

Da dove però dovrebbe essere preso questo denaro? Se con Thomas Paine si trattava di proprietà naturale della terra, oggi si parla di tassazione, tagli alla burocrazia e ai servizi garantiti dallo stato tradizionale. Una vera e propria rivoluzione. Molti fanno notare l’enormità dei costi di una politica di questo tipo. Alcuni esperimenti ben riusciti esistono, come il caso dell’Alaska Permanent Fund (25% dei proventi dei giacimenti di petrolio e gas dello stato). Qui però hanno avuto a disposizione una consistente risorsa naturale da dividere. In casi come l’Italia, invece, dove una tale risorsa non è a disposizione, sembra che la tassazione sarebbe talmente elevata da disincentivare il lavoro di chi produce, e da mettere in moto un circolo vizioso di “sfruttamento”. Si tratterebbe di un’istituzionalizzazione dello sfruttamento di chi lavora e probabilmente non si riuscirebbe a garantire una somma sufficiente a realizzare l’ideale di libertà su cui si basa il progetto.

Dal punto di vista sociale, come scritto sopra, il ragazzo maggiorenne e il barbone, avrebbero a disposizione la stessa somma di denaro. Si risolverebbero le difficoltà di inserimento nel tessuto sociale e di povertà? La madre casalinga non dovrebbe più dipendere dal partner, ma diventerebbe libera dalla sua condizione? Sembra importante riflettere su cosa vorremmo che lo stato facesse per noi. Su quali pensiamo siano stati i limiti che hanno reso molti giovani tra noi bloccati nella disoccupazione. La rivoluzione dev’essere solamente economica o dovrebbe intervenire sulla società e sulla nostra cultura del lavoro, dell’investimento nel capitale umano, a partire dall’istruzione? Siamo veramente convinti che la libertà sia solo “avere a disposizione del denaro”? Siamo convinti che questa politica ci renderebbe “più uguali” perché tutti titolari del diritto al reddito di base? Siamo d’accordo sul fatto che l’obiettivo del sistema economico non sia quello di creare occupazione e lavoro ma di distribuire (questa) libertà? Lo scettico risponderebbe semplicemente sostenendo l’impossibilità di rispondere a queste domande in maniera definitiva. Oggi però non possiamo permetterci di essere soltanto scettici, è la vita stessa della nostra comunità a chiederci di fare delle scelte e di prendercene la responsabilità. È a questo punto che entra in gioco la filosofia politica e morale, che problematizza e rimette in discussione ciò che viviamo, che trova un suo spazio quando non bastano calcoli economici a rispondere alle esigenze dell’uomo. Michael Sandel, filosofo e professore di Filosofia politica ad Harvard, durante una delle lezioni introduttive del suo corso Justice (presentata sul canale Youtube dell’università) spiega ai suoi studenti i rischi dello studio della filosofia politica: “La filosofia ci insegna e ci disorienta, mettendoci di fronte a ciò che conosciamo già. […] La filosofia ci allontana da ciò che ci è familiare, non dandoci nuove informazioni, ma invitandoci e provocandoci a vedere le cose in modo diverso”. La filosofia morale e politica, dice Sandel, è una storia che non sai dove porterà, ma sai che parla di te.