Cultura

La lingua italiana tra radio e televisione

di Dimitra Giannoulidis

Nel commemorare i 150 anni dell’Unità d’Italia ci sembra interessante ripercorrere per sommi capi il cammino della nostra lingua, che narra sotto un certo profilo la storia del popolo italiano dal lontano 1861 sino ad oggi .
Se si era raggiunta faticosamente nell’Italia post-unificata una lingua letteraria comune di matrice fiorentina, lo stesso non si può dire della lingua parlata: come ci ricorda Tullio De Mauro, uno dei più importanti linguisti italiani contemporanei, all’epoca più dell’80% del popolo italiano era analfabeta e dialettofono.
Tra i fattori determinanti che favoriscono agli inizi del ‘900 una diffusione più massiva dell’italiano, giocano un ruolo importante l’azione della stampa periodica e quotidiana, e la nascita di una certa letteratura di consumo, tra cui il fumetto e la letteratura per l’infanzia, che diventano vere e proprie occasioni di lingua, a cui non si può partecipare se non si conosce l’italiano; si sviluppa così un senso di appartenenza che accomuna le classi popolari.
Ma il ruolo più importante lo svolgono i nuovi mezzi di comunicazione quali radio, cinema e tv.
Certamente la nascita della radio nel 1924 ha dato forza propulsiva all’espansione linguistica, cercando di dare spazio alternativamente all’informazione e al divertissement. La genialità di questo nuovo media sta nella sua versatilità che ha colpito i primi ascoltatori, e nel consentire una notevole libertà di interpretazione che dà a chi la ascolta la sensazione di essere coinvolto in prima persona.
E’ noto però, che è con l’avvento della televisione nel ’54, che l’italiano si diffonde vertiginosamente: negli anni ’60 vengono introdotti in Rai alcuni programmi come “Non è mai troppo tardi”, col chiaro intento pedagogico di insegnare a leggere e a scrivere agli italiani. La tv diventa strumento di coesione sociale: le famiglie restano ipnotizzate davanti allo schermo della “macchina parlante” che trasmette “Lascia o raddoppia”, il quiz più famoso d’Italia, che diventa un fenomeno di costume della società .
Nasce in questi anni il cosiddetto italiano popolare. Il termine è stato coniato per la prima volta negli anni ’70 dall’allora Ministro dell’Istruzione De Mauro: egli si ispirò agli studi di un’antropologa su alcune lettere di una donna salentina, affetta da un disturbo nervoso, nota con lo pseudonimo di “tarantolata”. Il linguaggio di Anna esprime al meglio quei tratti dell’italiano imperfettamente acquisito, di chi ha come madre lingua il dialetto.
Se la tv ha avuto un ruolo così determinante nel processo di acculturazione delle classi popolari,oggi, a più di 30 anni dall’avvento della tv commerciale, ci si chiede se non abbia in definitiva causato l’effetto opposto: un’inculturazione generale, che ha gravato (neanche a dirlo!) soprattutto sui giovani: la cosiddetta “generazione del presente indicativo”.
Francesco Sabatini, Presidente dell’Accademia della Crusca, individua una funzione essenziale della televisione: fornire un modello linguistico (oltre che culturale) ai telespettatori. Per fare un parallelismo considera l’italiano semplificato, privo di subordinate dell’ “everyman” Mike Buongiorno, una lingua formalmente impeccabile e perfettamente aderente al pubblico di allora, rispetto a quella dei talk show di oggi.
La tv non è, come molti credono, lo specchio riflesso della società in cui viviamo, è essa stessa promotrice di usi linguistici e valori, pertanto non deve sottrarsi al ruolo pedagogico che incarna.

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