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II Classificato – “Un lavoro per il Dottor Fredersen” di Alessandro Madeddu

 

di Alessandro Madeddu

 

Cracovia, magnifica città.
Città di studio e di ubriachezza
per pochi fortunati e disperati
che ne han veduta la ricchezza.

Piena all’eccesso di vini e di birre
e curve di sguattere bionde
e scommesse. Cracovia magnifica
città di ebbrezza e baraonde.

 

Il dottor Fredersen scrisse questi versi in un giorno in cui era in vena. Si era fermato in una locanda di Lubecca, città alla quale, forse, in verità, si era voluto riferire. Lubecca – magnifica città per davvero. La locanda era il Serpente di mare, che teneva tutte le caratteristiche essenziali per questo genere di imprese.
In primo luogo un padrone ignorante. Il signor Eckart era analfabeta. Veniva da Eisenach, discendente di una dinastia millenaria di locandieri. Diceva che i suoi avi più antichi erano scesi dal cielo che già facevano i tavernieri durante la caduta, anime tra i primi discendenti di Adamo ed Eva ad aprire una mescita. Seguivano le inevitabili risate dei clienti: padron’ Eckart, basta buffonate, e portateci altra birra! Violento e irascibile con i vili di nascita e condizione. Un buon padrone, insomma.
In secondo luogo la locanda era ben rifornita. Ma quanto bene lo fosse neanche lo si può immaginare. A Cracovia il dottor Fredersen si era abituato a molti vizi. Fare lo studente è un gran lusso: si può spendere tutto quello che rimane, dopo aver comprato pane e minestra e pagato le lavandaie, in vino e birra. Fare lo studente, una camera propria fra chi non si lamenta, anche solo un materasso: si possono portare a letto sgualdrine di infimo ordine senza ricevere proteste ufficiali. Certe ragazzine, arrivate dalla campagna per fare le serve… Tutto ciò controbilanciava ampiamente la fatica di sopportare padroni di casa che sembrano usurai e professori vecchi e rimbambiti, che parlano biascicando e innaffiando i presenti di sputazzi.
E terzo: la sguattera. Dove trovarla una così?, mica le vendono sulla piazza del mercato. Spiritosa, sorridente, con due tette da paura. Vederla girare per la sala della locanda, fra i tavoli, incurante degli effetti delle sue curve, pronta a rispondere per le rime ai complimenti volgari della clientela… poche cose le sarebbero state alla pari, pensava il dottor Fredersen. Nessuna donna, in ogni caso. E un bel nome da giudea: Ester.
Il dottor Fredersen, passava le sue notti in una stanza del Serpente di mare, le sue sere ad un tavolo del Serpente di mare, e le sue giornate a girovagare per Lubecca, con indosso i suoi abiti migliori, o per lo meno quelli puliti. L’austerità è sempre ben vista in queste città mercantili e senza luce che si affacciano sul Baltico. Sentiva tutta la distanza che lo separava da quel regno di Aragona di cui Pedro gli raccontava quando erano studenti. Pedro era un iberico finito lì a Cracovia chissà come: di questo non parlava mai, occupato com’era, quando non beveva o non inseguiva qualche ragazza, a parlare del sole e del mare del meridione. Giovani di belle speranze e – forse – non privi di qualche qualità, licenziati in legge dallo Studium di Cracovia, si erano divisi da amici che prima o poi si sarebbero ritrovati. L’Aragona, e la vicina Castiglia – ma quest’ultima è abitata da gentaglia, gli aveva raccontato Pedro – sono soleggiate e calde, gli uomini sono duri, orgogliosi, vestiti meglio di quanto le loro borse possano permettere, e le donne hanno gli occhi neri, i capelli mossi e scuri…
Un giorno vorrei proprio vedere le terre del sud, pensava il dottor Fredersen. Camminava lungo i moli del porto, in una giornata grigia e piena di attività. L’unico che non ha niente da fare sono io e la mia borsa è sempre più leggera. Al massimo entro l’indomani avrebbe preso il volo e sarebbe andata via insieme ad uno stormo di gabbiani. Urgeva una soluzione. Ne valutò due, mentre guardava gli scaricatori affaccendarsi intorno ad un vascello da carico, di certo senza invidiarli.
Poteva darsi alla macchia e fare il bandito, nelle campagne. Il bandito laureato: sembrava il titolo di una novella. Il dottor Fredersen, giovane colto e di bell’aspetto, raduna intorno a sé una banda di splendidi professionisti, tutti uomini forti ed intrepidi. Pesciolino, dal grande peso e dall’immensa fame, bevitore eccezionale, uno squalo predatore. Lo Smilzo, rapido con i coltelli, al quale nessuna serratura, nessuna donna, può resistere. Il Moro, così detto perché scuro di pelle, proveniente dall’arsa Calabria, silenzioso e inesorabile con i nemici. Con i suoi compagni, il dottor Fredersen compie memorabili imprese, furti incredibili, rapine rischiosissime ai danni di uomini ricchi e malvagi. Finiranno anche sul patibolo, traditi, naturalmente, dalla loro indole cavalleresca e dall’amore per la verità e la giustizia – ma riusciranno ad evitare la forca perché graziati dall’Imperatore in persona, che, avendo sentito parlare delle loro gesta e della loro generosità, donerà loro un vitalizio, una casa e il permesso di venirgli a fare visita. Inoltre punirà i potenti e i magistrati che li volevano morti, perché grazie alla banda scoprirà che questi erano tutti dei traditori e dei truffatori, avidi di denaro e privi di scrupoli, che maltrattavano i loro sottoposti, angariavano il popolo e molestavano le donne.
Queste storielle, insieme a qualche strofa composta di tanto in tanto, erano tutto ciò che rimaneva, nell’Anno del Signore millequattrocento e novantadue, di quelle che un tempo erano state le velleità letterarie del dottore. E poco era rimasto del resto, e soprattutto poco di ciò che davvero poteva dire di aver imparato, oltre le formule del codex di Giustiniano e le intuizioni di Henry di Bracton sulle leggi e le consuetudini degli Inglesi. «Hans, qui non è come nella mia patria, dove chi meglio sa vivere senza lavorare più è apprezzato» aveva detto una volta Pedro: e il dottor Fredersen lo avrebbe ricordato per tutta la vita, così come avrebbe ricordato l’espressione sorpresa dell’amico.
Come seconda opzione, poteva anche trovarsi un lavoro. Che orizzonte atroce, si diceva. Solo a pensarci, tutta quella gente che lavorava al porto lo spaventava; così, per non averla davanti agli occhi – a ricordargli che destino gramo aspetti gli uomini al varco – pensò bene di tornare verso la taverna, dove anche chi lavorava sembrava non aver nient’altro da fare che giocare a morra e bere birra. Quella era vita. Senza eccessi, senza sforzi, né sfarzo o potere, solo un tranquillo divertimento senza – e sempre qui si finisce – un giorno che uno di lavoro. Prega e lavora, un paio di palle. Era già tanto se il dottor Fredersen aveva studiato fino ad ottenere la laurea in diritto – ottenuta per altro discutendo una tesi sulla Lex de Imperio che in tanti avevano trovato alquanto azzardata, sebbene non poco interessante. Erano giovani di belle speranze, in fondo, non privi di qualche qualità.

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